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Pakistan. Storia di Nadia, quasi uccisa dalla sua famiglia per aver sposato un cristiano

Dopo Meriam e Asia Bibi, un’altra donna vittima di un assurdo caso di violazione di diritti umani e libertà religiosa. Il marito ucciso, lei ora lotta in ospedale tra la vita e la morte

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Sembrava che la vicenda di Meriam Ibrahim, la giovane sudanese che lo scorso anno ha sfiorato l’impiccagione per apostasia, avesse dato una lezione sui diritti umani e sulla libertà religiosa e di coscienza. Come pure il caso di Asia Bibi, la cristiana pakistana da oltre cinque anni dietro le sbarre per una pesante quanto assurda accusa di blasfemia.

Ma il mondo pare invece non aver imparato proprio nulla da queste drammatiche vicende, se oggi in Pakistan una ragazza di 23 anni si trova tra la vita e la morte su un letto d’ospedale solo perché, da musulmana, ha sposato un cristiano. Un “sì” quello pronunciato da Nadia Din Meo sull’altare che si è trasformato presto in una spada di Damocle sulla sua testa. Per lei e per il marito, Aleem Masih, 28 anni, l’inizio di un calvario, in un paese dove la shariʿah, la legge islamica, continua a mietere vittime giorno dopo giorno.

Aleem ora non c’è più, assassinato come il peggior criminale, con la colpa di aver corrotto una donna cresciuta secondo i dettami dell’islam. Nadia, che ha visto il suo sposo morire davanti agli occhi, invece è adesso ferita e in fin di vita.

Ma non è questo l’aspetto più triste di tale vicenda, bensì il fatto che le tribolazioni per i due coniugi siano iniziate in seno alla loro stessa famiglia. O meglio tra i parenti di lei, tutti musulmani, che in un primo momento hanno celebrato il matrimonio della ragazza, ma poi non hanno retto il peso dell’onta di avere una “apostata” in casa.

Dall’angoscia per la propria reputazione al sentimento di vendetta il passo è breve: bisognava punire Aleem per aver condotto la giovane sulla “via della perdizione” e Nadia per aver disonorato una intera famiglia convertendosi al cristianesimo. Sono seguite quindi pesanti minacce, anche verso i parenti cristiani di Aleem che intanto hanno denunciato tutto alla polizia. Inutilmente.

I due sono stati costretti a fuggire e nascondersi a Narang Mandi, a 60 km da Lahore. Il periodo di tregua, però, è durato poco. La caccia si fa spietata e la rabbia è troppo forte. I giovani vengono scovati lo scorso 30 luglio da alcuni fratelli e parenti di Nadia e finiscono sotto una pioggia di proiettili. Un omicidio a sangue freddo, verso il sangue del proprio sangue.   

Aleem muore sul colpo, raggiunto da tre colpi d’arma da fuoco alle gambe, alle costole e in bocca. Nadia si salva miracolosamente nonostante gli spari a costole e ventre. Creduta morta viene subito trasportata in ospedale dalla polizia sopraggiunta sul luogo. Ora è in condizioni critiche.

L’autore del terribile gesto è stato subito individuato, o meglio, si è subito lasciato individuare: Muhammad Azhar, parente della 23enne che si è detto “felice di aver ucciso un cristiano” e “orgoglioso” di aver nuovamente restituito l’onore alla famiglia, tanto da “meritarsi il paradiso” ed essere ricordato come un “eroe”.

Con lui sono numerosi quelli che ritengono “giusta e meritata” la brutale esecuzione. E questa complicità, unita all’omertà – spiega a Vatican Insider l’avvocato Aneeqa Maria Anthony, coordinatrice dell’Ong The Voice, che sta seguendo il caso fornendo assistenza legale – faranno sì che la giustizia non potrà affermarsi e che i colpevoli godranno di impunità. D’altronde c’è una legge di base che sancisce che chi abiura non ha scampo, merita solo la morte.

Un dato che aggiunge tristezza ad una vicenda già di per sé desolante. 

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Salvatore Cernuzio

Crotone, Italia Laurea triennale in Scienze della comunicazione, informazione e marketing e Laurea specialistica in Editoria e Giornalismo presso l'Università LUMSA di Roma. Radio Vaticana. Roma Sette. "Ecclesia in Urbe". Ufficio Comunicazioni sociali del Vicariato di Roma. Secondo classificato nella categoria Giovani della II edizione del Premio Giuseppe De Carli per l'informazione religiosa

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