Dal Cile al Malawi, passando per il Portogallo. A varie latitudini, il tema dell’interruzione volontaria di gravidanza tiene banco tra gli scranni parlamentari e presso l’opinione pubblica di Paesi diversi per cultura e realtà sociali. È atteso per domani, 4 agosto, in Cile, il voto della Camera dei deputati relativo a una proposta normativa, presentata nel gennaio scorso, che intende depenalizzare l’aborto.
Insieme a Salvador, Honduras, Repubblica Dominicana e Nicaragua, il Cile è uno dei Paesi in cui l’aborto è completamente vietato. Divieto che è stato introdotto nel 1989 e che oggi la presidentessa Michelle Bachelet vorrebbe togliere nelle circostanze in cui l’utilizzo – afferma – può avere fini terapeutici: quando la gravidanza mette in pericolo la vita della madre, se il feto presenta malformazioni incompatibili con la vita e se la madre è rimasta incinta a seguito di uno stupro.
L’ipotesi di una simile riforma ha tuttavia creato polemiche. In molti, in seno alla società cilena, sostengono che l’aborto non è mai terapeutico. Tra costoro, i membri della Conferenza episcopale. È in Rete un sito, curato dai vescovi, dall’eloquente titolo “Grazie alla vita” in cui sono raccolti tutti i documenti della Chiesa locale relativi a questo tema. In una forma più sintetica, è presente il documento finale della 109esima Assemblea plenaria, svoltasi nel mese di aprile, ed intitolato “Il diritto umano ad una vita degna per tutti”.
Il “rispetto” e la “considerazione” per ogni persona tentata dal ricorrere all’aborto: è ciò che nel testo sottolineano anzitutto i presuli. Non è però attraverso l’interruzione della gravidanza che si curano certe esperienze traumatiche e, dunque, spiegano i vescovi, l’aborto “non è mai terapeutico”. Nel testo si legge ancora “che l’aborto non è di per sé un’azione terapeutica per salvare la vita di una madre in pericolo, anche quando la morte della persona concepita è una possibilità prevista, non voluta, non ricercata”.
Piuttosto, un’azione a vantaggio delle donne rimaste incinte a seguito di violenze può essere svolta dallo Stato, mediante programmi di sostegno per accompagnare queste madri sofferenti. Per i vescovi, infatti, è preminente l’impegno a “lavorare per una società senza esclusioni”. “Esortiamo tutte le autorità – conclude il documento – a tutelare ogni essere umano, in particolare i più deboli ed indifesi, ed amare e rispettare alla stessa maniera madre e figlio”.
Un dibattito simile a quello cileno si sta vivendo in Malawi. Nel Paese africano, dove l’aborto è illegale e chi lo pratica rischia fino a 14 anni di carcere, è stata presentata una proposta parlamentare che ricalca per molti aspetti quella del Cile, per consentire l’aborto in determinate circostanze: pericolo per la vita della madre, gravi malformazioni del feto, stupro o incesto.
Nel dibattito è intervenuta, attraverso il proprio segretario padre Henry Saindi, la Conferenza episcopale del Malawi (Cem). Padre Saindi ha ricordato che per la Chiesa “l’aborto è l’omicidio di un bambino non nato, dal momento che la vita di una persona inizia dal concepimento”, sottolineando che “il nascituro ha diritto di vivere e deve sempre essere protetto dalla società”. Anche i vescovi del Malawi, come i loro colleghi cileni, hanno posto l’accento sull’importanza di accompagnare e aiutare le donne che hanno subito violenze o incesti, nonché “ad accettare la loro situazione e il dono della vita che hanno ricevuto da Dio”.
Fino al 2007, anche il Portogallo aveva una legislazione restrittiva sul tema dell’aborto, consentito solo in caso di stupro o in caso di incompatibilità della gravidanza con la vita della donna e/o del bambino. Maggiori aperture furono poi introdotte dal Parlamento, a seguito di un ampio dibattito nel corso del quale gli elettori furono chiamati a votare ad un referendum che però, non raggiungendo il quorum, non fu vincolante.
Il dibattito si è riacceso lo scorso 22 luglio, quando il parlamento ha deciso di modificare la legge in senso nuovamente restrittivo. È stata introdotta una tassa che le richiedenti dovranno pagare per poter accedere al servizio, nonché uno o più colloqui con uno psicologo o un assistente sociale. La riforma affonda le radici nell’iniziativa popolare “Dereito a Nascer” (Diritto a Nascere), petizione firmata da quasi 50 mila cittadini portoghesi per invocare maggiori tutele nei confronti dei nascituri. Il parlamento ha in parte interpretato le istanze maturate nella società civile.