C’è un modo in cui la carità va ben oltre il mero sostegno del momento. In particolare ci sono periodi della storia umana in cui i benestanti investono sulla popolazione indigente, offrendo capitali, educazione e sanità in forma gratuita, con risultati incredibili di cui beneficiano tutti.
Anche di questo ha parlato padre Orlando Todisco nel libro “la solidarietà nella libertà” pubblicato dalla Cittadella Editrice.
Padre Todisco è docente di Filosofia Francescana al Seraphicum di Roma.
Sulla fecondità e attualità del pensiero Francescano padre Todisco ha già pubblicato diversi volumi di grande qualità.
ZENIT lo ha intervistato.
Nel libro “La solidarietà nella libertà” lei racconta della nascita e dello sviluppo dei “Monti di pietà”. Lei spiega la rivoluzione francescana che passa dal chiostro alla piazza, che recupera il carattere positivo del lavoro, che condanna l’usura ma parla della seminalità del capitale e attraverso l’istituzione dei Monti di Pietà mette in atto la “povertà produttiva”. Un processo sociale in cui benestanti possono investire in carità, educazione, sanità, lavoro e praticare l’economia del dono. Potrebbe spiegarci meglio come funzionavano i Monti di pietà e quali le basi concettuali di questa rivoluzione?
I Monti di pietà, avviati nella seconda metà del ‘400 a opera dei francescani Bernardino da Feltre, Bernardino da Siena…, rappresentano un’iniziativa che si iscrive nel grande passaggio, come lei dice, dal chiostro alla piazza. Occorrerebbe forse riflettere più a lungo sulle implicazioni teorico-esistenziali di questo superamento delle barriere del chiostro a favore del mondo come nuovo spazio della presenza e glorificazione di Dio. Concepiti come ripetizione della salita del Signore al Golgota, i Monti di pietà sono progettati all’interno del primato della comunità, quale forma efficace di ricucitura sociale tra i poveri e i ricchi. Questi, infatti, sono invitati a mettere a disposizione parte del loro capitale, grazie al quale i meno abbienti, privi di mezzi ma intraprendenti, possano reinserirsi nel circuito produttivo sociale. Non c’è, infatti, umiliazione più grande che di risultare parassiti o di peso alla società. I ricchi, dunque, protagonisti della pacificazione sociale – questo il sogno dei francescani. Lei parla in maniera davvero acuta di ’povertà produttiva’. Questa risulta tale nel contesto generale del recuperato concetto dell’essere come dono o meglio nel contesto della messa in atto di ciò che esprime il nostro ringraziamento di essere al mondo – è questo il senso ‘espropriativo’ con cui rapportarci alle cose, il che ha luogo a condizione e nella misura con cui si è disposti a donarle. Per intendere poi quale fosse la logica del funzionamento dei Monti di pietà e quale sia la sua attualità si pensi a ciò che oggi vien detto ‘mercato civile’, con l’unica variante che, invece di mettere al centro la generosità redentiva dei ricchi, si predilige l’azionariato popolare, come ricerca di spazio per tutti. Più che la massimizzazione del profitto, ciò che conta è il bene di tutti e di tutto l’uomo, il che ha luogo facendo convergere – non mettendole l’una contro l’altra – le ‘azioni’ di tutti a favore dell’elevazione qualitativa della vita di tutti i membri della comunità. Non c’è delusione più amara che di avvedersi che le motivazioni ‘nobili’ del proprio operare non vengono dai bisogni effettivi dell’’altro’, ma dalla cattedra della nostra vita – il mercato!
Il suo libro si conclude con la tesi secondo cui “l’essere come dono è all’origine della nuova democrazia”. Potrebbe illustrarci meglio questo passaggio?
Intesa come spazio tutelato della libertà, la democrazia è da pensare come lotta contro la tentazione, tipicamente moderna, di “reducere animam in captivitatem”, di soggiogare o imprigionare l’altro in specifiche forme di vita, e dunque come critica dello stile conclusivamente settario nel campo religioso, culturale, politico. Ora, più che a non avere questo o quello, il francescano invita a concepire le cose come un dono, dunque da non idolatrare – le volpi hanno le loro tane, gli uccelli i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha ove posare il capo (Mt 18,16) – che si tratti di una prospettiva teologica o filosofica o di un bene materiale, la differenza è relativa. Il francescano vuole che non ci si identifichi con alcunché, persuaso che tutto sia funzionale a qualcos’altro, più alto e più ampio, verso cui si è in cammino. Itineranza e democrazia si identificano. Ebbene, l’itineranza è l’anima della povertà e la libertà, intellettuale e morale, è la sua tessera di riconoscimento. Cosa allora ci rende capaci di spezzare quelle rigidità che incarcerano la vita mortificandone la libertà creativa se non lo sguardo illuminato dalla visione dell’essere come dono, fonte di esaltazione e insieme di relativizzazione di tutte le sue espressioni? Il francescano pone al centro la libertà, come volto originario dell’essere, e sollecita a conservarla trasparente pur negli intrighi della storia e auspicabilmente a potenziarla. Ma è questo uno stile praticabile o invece per l’onda concupiscenziale che ci abita è di ardua realizzazione? Sì, è ben ardua la sua realizzazione. Per questo è necessario porre dei paletti intrasgredibili. La politica è necessaria, funzionale però alla libertà, che non è un diritto concesso o acquisito, ma il modo originario d’essere, da presupporre come contesto entro cui la politica deve prendere volto e alla cui luce è da valutare.
La povertà francescana può essere un’ottima chiave di lettura delle istituzioni umane, sia ecclesiali che civili, sullo sfondo di una cesura tra ciò che l’uomo dovrebbe essere e ciò che effettivamente è, e cioè tra la dimensione trascendente tutte le forme specifiche di vita, di cui la libertà dovrebbe essere lo specchio, e la condizione dominatoria e possessiva, entro cui viviamo. Da qui la nascita e l’articolazione del diritto, compresa la proprietà, con cui porre argine al disfrenamento delle passioni, per evitare lo spegnimento della libertà creativa o la sua trasformazione in libertà distruttiva. La proprietà, dunque, come argine, non come giustificazione dell’atteggiamento possessivo. Occorre pervenire fin qua se si vuole cogliere l’anima ispirativa di matrice francescana della democrazia.
Quanto della rivoluzione francescana compiuta tra il 1200 ed il 1500, si trova nell’Enciclica “Laudato Si” di papa Francesco?
Ciò che della rivoluzione francescana è nell’enciclica ’Laudato sì’ è da riporre nel fatto che questa ci invita a leggere l’ecologia e a valutarla dal punto di vista dei ‘poveri’. All’origine dei guasti ambientali è da porre lo spirito possessivo e dominatorio, che non appartiene al povero; così come all’origine di una rinascita complessiva è necessario acquisire una mentalità fruitiva, non possessiva delle cose, che è appunto la mentalità del povero. Costui si serve delle cose senza possederle. Da qui il povero filtro critico e propositivo dei molti problemi ambientali. A sostegno della lungimiranza di questa lettura papa Francesco ribadisce che l’uomo non viene al mondo per possedere. L’uomo non va pensato proprietario, sia pure in senso ‘comunitario’. Nel contesto della povertà francescana papa Francesco risolve la categoria del ‘possesso’ in quella dell’’uso’, persuaso che, se non si trasfigura la proprietà in uso, si avalla la tesi secondo cui l’uomo è fatto per ‘possedere’, estendendo il potere dalle cose all’uomo, con conseguenze gravi sulla funzione della politica anche ecclesiale.
É conseguente, infatti, che le istituzioni vengano intese come forma di dominio o di assoggettamento nei molti campi del vivere e del pensare e non come binarii o percorsi praticabili dalla comunità in specifici
momenti storici. É ovvio che, sullo sfondo del nesso tra proprietà e vita politica, gli esiti totalitari non sono scongiurati. Da qui la necessità di metter mano a una purificazione concettuale della ‘proprietà’, confermando che l’uomo è fatto per comunicare, non per possedere, per servire, non per dominare – il che lo si dica in ogni campo e a ogni livello. L’esemplarità della povertà francescana ha questa funzione, e cioè ribadire come si era o comunque come Dio vuole che siamo. La povertà aiuta a instaurare un rapporto essenzialmente nuovo con le ‘cose’, un rapporto in cui la società viene pensata come comunità e questa come ‘fraternità’, e cioè proponendo di vivere senza ‘mio e tuo’, non solo all’interno del proprio gruppo, ma anche ad extra, e cioè godendo dei beni, non però escludendo – xenofobia – quanti alla ‘fraternità’ non appartengono, e dunque includendo tutti. Quale l’efficacia testimoniale allora della povertà, assunta da papa Francesco a grammatica di lettura dei molti problemi ecologici? Confermare che l’uomo voluto da Dio è fatto per comunicare, non per dominare.
Non si tratta di vivere nella povertà come reazione alla ricchezza o come contestazione di specifiche istituzioni della vita economica.
Il francescano incarna l’uomo libero, impegnato a vincere la forza concupiscenziale, che ci abita, in maniera che si guardi a lui come al viandante in compagnia dei poveri, gli eterni viandanti del mondo, e si consideri la libertà come il clima entro cui esercitare il potere di cui ognuno è dotato.