Per parlare di arte nella contemporaneità è necessario avere a disposizione infiniti strumenti di lavoro. L’arte è il crocevia di moltissime discipline e quindi è necessario che tutte queste vengano in qualche modo comprese nel discorso sull’arte. La sociologia, la politica e la letteratura non sono luoghi lontani, ma limitrofi anzi connessi, interconnessi, e prendere da essi spunti e considerazioni utili alla decifrazione dell’attuale è quanto mai positivo. Questo è il caso di Fahrenheit 451 testo illuminante sulle ideologie politiche e sociali del contemporaneo. Per certi versi il libro risulta quasi profetico. All’interno di Fahrenheit 451, scritto da Ray Bradbury nel 1953, troviamo moltissime descrizioni “fantascientifiche” di un futuro immaginario che però, a ben vedere, poco ha a che fare con regimi totalitari novecenteschi come nazionalsocialismo, fascismo o comunismo, ma piuttosto esprime una visione del mondo che già negli anni Cinquanta era possibile rintracciare come promotrice di “progresso”, tanto che il testo più che al genere fantascientifico è ascrivibile a quello delle utopie negative, delle distopie, come 1984 e la Fattoria degli animali di Orwell con cui mantiene per certi versi delle affinità critiche sullo sviluppo del moderno, profetizzando un possibile e attuale post-moderno.
Ma leggiamone alcuni passi:
«Oh, parlerà pure di qualche cosa, la gente!»
«No, vi assicuro. Parla di una gran quantità di automobili, parla di vesti e di piscine e dice che sono una meraviglia! Ma non fanno tutti che dire le stesse cose e nessuno dice qualcosa di diverso dagli altri. E quasi sempre nel caffè hanno le macchinette d’azzardo in funzione, si raccontano le stesse barzellette, oppure c’è la parete musicale accesa con i disegni a colori che vanno e vengono, ma si tratta soltanto di colore e il disegno è del tutto astratto. E nei musei, ci siete mai stato? Tutta roba astratta. Ecco quello che ci si trova ora, nei musei. Lo zio dice che era differente una volta. Molto tempo fa, non so bene quando, i quadri e la scultura dicevano delle cose precise, mostravano addirittura delle persone» [1].
Si comprende già molto da questo breve dialogo tra il protagonista vigile del fuoco Guy Montag e la ragazza Clarisse, dal cui incontro inizia la crisi di consapevolezza di Montag. Questo è un mondo metaforico dove i vigili del fuoco non spengono gli incendi ma li innescano, non hanno nelle autobotti acqua, ma cherosene per alimentare roghi al fine di distruggere libri. La distruzione dei libri, come è narrata nel romanzo di Bradbury, procede di pari passo con la distruzione delle immagini, dei dipinti e dell’arte, viene lasciato sopravvivere solo un luogo di normalizzazione del consumo e della vita “serena”, senza pensieri, tutta fatta di sport, pubblicità e riduzioni di riduzioni di libri al fine di non far pensare, ma mantenere l’illusione del pensiero.
Così il capitano dei vigili del Fuoco, Beatty, racconta la storia che ha condotto al mondo senza libri: «La popolazione si è raddoppiata, triplicata, quadruplicata. Film, radio, riviste, libri si sono tutti livellati si un piano minimo, comune, una specie di norma dietetica universale, se mi intendi. Mi intendi? […] Immagina tu stesso: l’uomo del diciannovesimo secolo coi suoi cavalli, i suoi cani, carri, carrozze, dal moto generale lento. Poi, nel ventesimo secolo, il moto si accelera notevolmente. I libri si fanno più brevi e sbrigativi. Riassunti. Scelte. Digesti. Giornali tutti titoli e notizie, le notizie praticamente riassunte nei titoli. Tutto viene ridotto a pastone, a trovata sensazionale, a finale esplosivo […] Le opere dei classici ridotti così da poter essere contenute in quindici minuti di programma radiofonico, poi riassunte ancora in modo da stare in una colonna a stampa, con un tempo di lettura non superiore ai due minuti; per ridursi alla fine a un riassuntino di non più di dieci, dodici righe di dizionario».[2]
Non si può non osservare che questo è in qualche modo realmente accaduto; del resto la fortuna della rivista statunitense Reader’s Digest fondata nel 1922 e di tutti i nostri Bignami e simili, non sono che un piccolo esempio dell’immenso lavoro di riassunto che la civiltà contemporanea ha operato sul passato; tutto è in pillole, pochi istanti per raccontare opere d’arte o epoche storiche, sia alla radio, che in Tv, e ormai sul web. Difficilmente un editore oggi romperebbe i ritmi dei “blocchi” scansionati dalla pubblicità per dire qualcosa di un poco più complicato. Del resto la televisione aborrisce parole complicate o tecniche e ormai è conformata allo slang ed al trash più facilmente digeribili dallo spettatore medio per cui tali programmi sono in definitiva stati progettati. Il modello del telespettatore medio è un ragazzo di 13 o 14 anni che va male a scuola, senza alcuna cultura e senza capacità linguistica evoluta.
Ma quel che Clarisse rivela a Montag sui musei è ancor più inquietante. Afferma che in un passato non lontano ma ormai dimenticato e cancellato, i musei contenevano opere d’arte figurativa che dicevano cose precise, mentre nel loro presente tutto è astratto, cioè privo di un vero e proprio discorso, lasciando nell’indistinto, nel sospeso nell’incerto lo spettatore che può vedere nelle opere quel che vuole e quindi non dover conoscere per comprendere, ma liberamente interpretare senza alcun vincolo formale o linguistico. In altre parole, una decostruzione pura capace di giungere fino in fondo alla destituzione dell’arte.
Ma anche questo è in qualche modo accaduto, e del resto è quello che Arthur C. Danto afferma, in una intervista rilasciata a Manrica Rotili, nella edizione italiana di Beyond the Brillo Box. The Visual Arts in Post-historical Perspective: «Una volta che la pittura scopre la piattezza non ha più senso produrre dipinti figurativi, diciamo che la tendenza non è più utilizzare il colore come nell’Ultima Cena. Ma una volta che il Modernismo giunge al termine, si può fare qualunque cosa. E nel momento in cui tutto è concesso la nozione di evoluzione svanisce. Questo ha aperto le porte al globalismo. La nostra è l’epoca delle Biennali, dove viene esposta l’arte di differenti nazioni. Ci sono centinaia di eventi internazionali d’arte tutti i mesi. C’è spazio per il cambiamento, ma non per l’evoluzione».[3]
Danto dichiara apertamente che, entrati nella nuova era dell’arte ovvero quella post-storica, non è più necessario mantenere un sistema narrativo giacché la fine della storia rivendica una distanza dalle grandi narrazioni (religiose e politiche) e quindi si è fuori dal processo evolutivo e si permane in un tempo sospeso di frenetico movimento senza di fatto un fine verso il quale indirizzarlo. L’espressionismo astratto ha fatto il suo corso, entrati nell’era del mercato puro, dove l’oggetto di consumo si confonde con l’opera d’arte, ogni definizione, ogni narrazione risulta superflua, giacché quel che conta è proprio la “felicità” democratica del consumo di massa, garantito a tutti dalla distribuzione globale dei prodotti. L’arte non è altro che un ennesimo prodotto di consumo che parla del consumo stesso e della sua mistica in chiave sociologica e politica.
Rodolfo Papa, Esperto della XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, docente di Storia delle teorie estetiche, Pontificia Università Urbaniana, Artista, Storico dell’arte, Accademico Ordinario Pontificio. Website www.rodolfopapa.it Blog:http://rodolfopapa.blogspot.com e.mail: rodolfo_papa@infinito.it
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