Sono rimasto sgomento, come penso molti di voi, quando ho saputo che dalle colonne dell’Espresso, o meglio dal suo portale informatico, veniva reso pubblico il testo della Enciclica Laudato si’.
La violazione dell’embargo è in sé un atto di grave scorrettezza e disonestà professionale. Su questo tutti siamo d’accordo. Tuttavia questa violazione assume anche un valore simbolico, a motivo del fatto che questa fuga di notizie è partita dagli ambienti vaticani, ovvero dai giornalisti accreditati presso la Santa Sede.
Tutti ricordiamo lo scandalo del così detto “corvo”, che rese pubblico il carteggio riservato del Pontefice, e in seguito volle giustificare la sua azione motivandola come desiderio di “trasparenza”.
Tutti ci rendiamo conto che la violazione di un embargo pontificio, oltre ad avere profili di immoralità, non può esser mossa che da latenti o manifesti interessi politici o, peggio ancora, economici. Frequentando personalmente gli ambienti vaticani, a causa del mio servizio di “Procura”, ossia di rappresentanza dell’Ordine presso gli uffici della Santa Sede, tocco con mano gli effetti di una logica diversa: quella della riservatezza.
Basta un minimo particolare: in alcuni uffici, come ad esempio quello della Congregazione della Dottrina della Fede, non è possibile attendere un officiale all’ingresso, o lungo un corridoio, o accedere direttamente in un ufficio, ma si attende la persona competente per risolvere la pratica segnalata, in un salottino, ove si svolge anche l’incontro, a “porte chiuse”.
In alcune occasioni le stesse missive arrivano in buste prive di intestazione, e recano nell’incipit la qualifica: riservato. In rare occasioni, la missiva giunge “sub secreto pontificio” e viene ricordato che l’obbligo di osservare tale segreto è “sub gravi”, ossia che la violazione dello stesso costituisce peccato grave. Perché tanta cura per tutelare la “riservatezza”?
Alla domanda mi sono dato empiricamente tre risposte: per preservare la “buona fama” delle persone, per rispettare la libertà di coscienza, e per tutelare la libertà di azione della stessa Santa Sede, sottraendo al “tribunale mediatico” e, a volte alla vera e propria diffamazione, le persone e le questioni più delicate.
Troppo spesso le vicende più importanti, nella nostra società italiana e occidentale, sono giudicate sommariamente nei salotti televisivi, da opinionisti o giornalisti, o peggio ancora sulle nuove agorà virtuali, a suon di “post” e di “sentenze” approssimative e superficiali.
<p>La riservatezza tutela la libertà di coscienza che ognuno di noi ha, ed esprime nel porre in essere le proprie scelte, che se possono sembrare criticabili ai più, hanno una loro logica intrinseca, fosse anche quella della debolezza che innesca il peccato.
È necessario giudicare e condannare il peccato, salvando il peccatore, e dando a lui la possibilità di riscatto. Distruggere la buona fama di una persona pubblica, come ad esempio un sacerdote o un religioso, potrebbe cagionare anche l’abbandono della Chiesa e lo scandalo da parte di molti altri, fedeli o non.
Attuare sanzioni penali su di un religioso o un fedele, da parte della autorità ecclesiastica, secondo le procedure prestabilite, non deve comportare una “damnatio memoriae”, ma tracciare un cammino di conversione, evitando lo scandalo, che ferisce la fede dei più deboli.
Ecco perché tutto ciò deve avvenire nella massima riservatezza. Basti pensare che per alcuni procedimenti penali la Santa Sede chiede che siano sacerdoti sia i giudici che gli avvocati, tanta è la delicatezza delle questioni trattate. La segretezza di taluni provvedimenti tutela la libertà di azione della Santa Sede.
Mi riferisco ad esempio alla procedura di nomina ad alcuni uffici ecclesiastici, per i quali è necessario richiedere delle informazioni e dei pareri presso persone autorevoli, senza sollevare sospetti o dare adito a dicerie. La libertà di azione della Santa Sede si esprime anche nel governo e nel controllo delle Chiese locali e degli Istituti Religiosi. In questi casi la riservatezza è d’obbligo.
Basti pensare cosa avverrebbe se l’identità di chi denuncia alla Santa Sede una situazione problematica all’interno di una Chiesa locale o un Istituto Religioso venisse resa nota: si esporrebbe la persona al rischio della emarginazione, o peggio ancora della ritorsione.
Il “male” va curato, senza condannare chi lo ha denunciato. Possiamo pensare in merito, alla sottilissima rete di rapporti diplomatici che la Segreteria di Stato tesse con le diplomazie di tutto il mondo, per tutelare la pace, la libertà religiosa e la dignità delle comunità cristiane sparse in tutto il mondo. La trasparenza, che oggi sembra un principio imprescindibile, fino a diventare una vera e propria bandiera politica, non può essere applicata sic et simpliciter alle procedure vaticane.
Se la richiesta di trasparenza è figlia della profonda diffidenza nelle istituzioni politiche, la fiducia nella Chiesa motiva e supporta il nostro pieno rispetto per la segretezza che il Papa e i suoi collaboratori ci chiedono in alcune circostanze, per il bene del prossimo e la salvezza delle anime, che nella Chiesa deve sempre essere legge suprema (Can. 1752) .
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L’articolo in questione è già stato pubblicato su San Bonaventura informa, newsletter della Pontificia Facoltà Teologica “San Bonaventura” Seraphicum, ANNO III – Nº 29.