Scelti per far parte del gregge di Cristo

Commento al Vangelo della IV Domenica di Pasqua (Anno B)

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Non si scappa, il Vangelo di questa Domenica è chiarissimo: le pecore sono comunque destinate a servire, sino al macello. Ma ci sono due modi per essere macellate: o come l’Agnello di Dio che ha offerto la sua vita in sacrificio per amore, o costrette e vendute dai “mercenari”.

Comunque vada la nostra vita è destinata ad essere sacrificata: o per ingrassare quanti ci ingannano, gli amici ad esempio, che trascinano tanti a drogarsi, a darsi piacere, a far parte del branco, per poi “fuggire” dinanzi al “lupo”, ai pericoli e ai fallimenti; oppure liberamente, per salvare chi ci accanto, seguendo le orme del Servo di Yahwè che ha consegnato se stesso in riscatto dell’umanità.

Tutti noi, scelti per far parte del gregge di Cristo, apparteniamo a Lui, e a Lui soltanto. Ma viviamo come ostaggi di “mercenari”, ed è questa la radice di tante nostre sofferenze e frustrazioni. Siamo stati creati in Lui, per questo nel nostro cuore risuona come adeguata, perfettamente rispondente all’aspirazione profonda e autentica, solo la voce di Cristo.

Non conosciamo nessun altro, eppure viviamo soggiogati dai “mercenari” che ci usano per guadagnare sulla nostra pelle, consegnandoci poi all’inferno. Non sono un inferno tante nostre relazioni? Non è un inferno il lavoro, lo studio? Non lo è il mondo, con la sua politica, con l’economia in mano all’avidità, con le guerre che, spesso in nome di Dio, insanguinano la terra? Lo sono perché ci siamo trasformati anche noi in “mercenari”.

Rubiamo, ci appropriamo, leghiamo le persone sperando ed esigendo guadagni affettivi, compensi esosi per aver dato qualcosa di noi. E le relazioni appaiono per quello che purtroppo sono, mercimoni di affetti, mercati dove non esiste gratuità. Infatti, “il mercenario scappa davanti al lupo”, al male, alla sofferenza, ai peccati.

Quando il prodotto si rivela diverso da quello pubblicizzato si rispedisce al negozio; quando la moglie, il fidanzato, l’amico si rivelano diversi da quello che avevano lasciato intuire di essere, quando appaiono i lati oscuri del carattere, quando emergono i limiti, le debolezze, i peccati, quelli che proprio non si adeguano alle nostre capacità di accoglienza e accettazione, rifiutiamo e “scappiamo”. Merce avariata venduta da mercenari, questo è, spesso, l’amore.

E “il lupo”, il demonio che muove le fila delle nostre relazioni, “rapisce e disperde”, ed è la nostra esperienza quotidiana. Quante volte assistiamo al naufragio di un fidanzamento, di un’amicizia, di un matrimonio, inciampati tutti nella debolezza e nei peccati!

Ogni giorno sperimentiamo la precarietà dei nostri rapporti, cerchiamo di blindarli con una serie di compromessi, ma alla fine, all’apparire della verità, scopriamo quanto effimeri siano i nostri maldestri tentativi di rabberciare le cose. E tutto si disperde, come si disperde il seme quando usiamo della sessualità chiudendoci alla vita, sia con la masturbazione, sia con i rapporti prematrimoniali, sia con i rapporti matrimoniali ingabbiati nei metodi anticoncezionali; come quando si disperdono le parole, le azioni, i progetti faticosamente legati insieme da un laccio carnale, che è sempre egoistico, il laccio del mercenario.

Il “lupo”, infatti, è sempre in agguato; per questo occorre riconoscere a chi apparteniamo, e a chi appartiene chi ci è vicino, le persone che ci sono care. Siamo di Cristo, perché Lui è l’unico che ci ama sino in fondo, che conoscendo perfettamente tutto di noi, ci ama senza riserve, senza esigere nulla, senza aspettarsi cambiamenti, non cerca neppure la nostra gratitudine.

Cristo è, secondo l’originale greco, il “Pastore vero e bello” che “espone la sua vita” perché il “lupo” non ci sbrani. Ah, sono queste dunque la bellezza e la verità! In esse e per esse siamo stati creati! La bellezza di Colui che non aveva bellezza né splendore da attirare gli sguardi; la bellezza del Servo davanti al quale ci si copre la faccia, tanto era sfigurato appeso alla Croce. La Verità fatta carne in Cristo, che appariva castigato e fallito, mentre portava il peccato di tutti e intercedeva per i peccatori; la Verità che risplende nella Croce.

Con quale bellezza, invece, ci ha sedotto il “mercenario”? Quale “verità” ci ha insinuato? Entrambe effimere, perché nemiche della Croce, dell’amore che non ruba ma “espone, dispone e depone” la propria vita per gli altri, secondo il senso dell’originale greco reso con “offre”. Gesù è il “pastore bello e vero”, perché, a differenza del “mercenario”, ha “interesse” delle pecore; ciò significa che ha le pecore in sé, dentro al cuore, perché questa è l’etimologia del termine “interesse”. Sa che Gli appartengono, le porta nella sua carne, “conosce le sue pecore”.

Conoscere – ghinôskô – nel linguaggio biblico, significa molto più di una conoscenza razionale; conoscere è donarsi, offire la propria vita, ed è anche una forma per indicare l’unione sessuale, come troviamo nelle parole della Vergine Maria rivolte all’angelo: “non conosco uomo”. Cristo, dunque, è il “Pastore vero” perché ci conosce nella “verità” che non esclude nulla, di sè e di noi; ci conosce amandoci, “deponendo la vita”, come il seme nella terra, nella nostra carne corrotta.

Gesù ci conosce per quello che siamo anche in questo istante. Niente di “mercenario”, ipocrita e falso; non una relazione superficiale che non fa mai entrare l’altro in sé, basata sull’apparenza; come accade a noi quando appare l’assoluta incompatibilità, e abbandoniamo anche colui per il quale abbiamo fatto di tutto, persino follie mascherate d’amore. Con Cristo, invece, tutt’altra cosa, una relazione che ha origine e compimento nella realtà di ciascuno. Lui è Dio sempre, anche quando noi siamo peccatori. Lui non ci respinge, non ci abbandona, mai.

Attenzione che qui Gesù dice qualcosa di immensamente grande: “conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre”. Come Gesù conosce il Padre? E come il Padre conosce Gesù? In un amore infinito, nel quale l’uno compie i desideri dell’altro; tra i due non vi è nulla di segreto, e tutto dell’uno appartiene all’altro. Così Gesù conosce ciascuno di noi, e così siamo chiamati a conoscerlo. In una comunione che supera ogni limite, in una confidenza che non viene mai meno, in un abbandono sereno anche nelle “valli oscure” della vita.

Capite? Apparteniamo a Cristo, in una conoscenza che ci depone nel cuore e nella vita stessa di Dio. Non ci sono più segreti, la storia, con i suoi Getsemani e i suoi Golgota, sono per noi già illuminati dalla luce della Pasqua. Possiamo vivere nella vita divina, amando senza riserve, oltrepassando gli steccati dell’egoismo e della concupiscenza. Possiamo essere sinceri perché nulla è segreto tra noi e Cristo, e in Lui, tra noi e il Padre. Gesù è per ciascuno il vino buono, il vino vero delle nozze di Cana, nel cui passo non a caso è usato “kalos”, lo stesso termine che si riferisce al Pastore: è Lui che infonde la gioia, il gusto, il senso e la pienezza alla nostra vita, trasformando l’acqua delle relazioni sterili ed egoistiche, nel vino nuovo della vita che abbonda al punto d’essere donata.

E’ il Pastore “bello”, altro significato di “kalos”, che fa bella la vita, che illumina la storia di ciascuno rivelando, nel suo amore crocifisso, che con Lui “non manchiamo di nulla (cfr. Sal 23). E ciò significa l’esatto contrario di ciò che fa il “lupo” al quale ci consegna il “mercenario”, che “disperde”. Per questo, solo riconoscendo la sua voce, sperimentando la nostra appartenenza a Lui possiamo conoscere l’amore autentico, e con esso la libertà.

Appartenendo a Lui possiamo appartenere alla moglie, al marito, ai figli, al fidanzato, all’amico. Ogni appartenenza umana è inscritta in un’appartenenza più grande, che non si esaurisce, che non scappa e sfilaccia di fronte alla prova: “da questo abbiamo conosciuto l’amore: Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli” (1 Gv 3,16). Perché anche le persone più
intime prima di appartenerci appartengono a Cristo, ed ogni rapporto vive solo in questa comune appartenenza a Cristo. Sino a vedere ogni persona come una sua pecora: “Anche altre pecore ho che non sono di questo recinto. Anche quelle bisogna che io conduca. E ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo Pastore”.

Confessiamolo, pochissime volte abbiamo guardato così agli altri, quelli fuori da “questo recinto”, sia esso la Chiesa o, più spesso, quello dei nostri criteri. I lontani della Chiesa, quelli che divorziano e abortiscono, il vicino che ci vuol far causa, il figlio che fa quello che vuole, il marito entrato in crisi che non ne vuol più sapere di Dio e dei preti, i parenti, i colleghi, i nemici.

Ma se sperimentiamo davvero che Gesù ha “disposto” la sua vita perché potessimo vivere come sue pecore, beh allora i nostri occhi si aprirebbero e guarderemmo agli altri in modo diverso. Comincerebbero ad “interessarci”, ad essere parte di noi, legati al nostro destino, perché il nostro cuore sarebbe lo stesso di Cristo.

Smetteremmo di fare, del “recinto” che ci sta gestando per uscire ad amare, come a volte accade nella Chiesa e nelle sue comunità, un muro invalicabile pieno di giudizi e pregiudizi. “Conoscendo Cristo come da Lui siamo conosciuti” sapremo anche noi “esporci” ai pericoli per salvare la vita del prossimo; “disporre” il nostro tempo, gli impegni, il portafoglio, le comodità, per il bene dell’altro; e “deporre” tutto di noi, compreso l’onore e la stima, i criteri e le idee, per uscire con Cristo a “condurre” chiunque ci sia vicino verso il suo amore.

Attraverso la sua Pasqua fatta carne e vita in noi tutti, potranno “ascoltare” l’annuncio del Vangelo come dalla bocca del “Pastore bello e vero”, perché “diventino un solo gregge, un solo pastore”. Come ha scritto Silvano Fausti, “nel testo greco non si dice un solo gregge e un solo Pastore con la congiunzione; neppure un solo ovile e un solo Pastore, ma si dice: un solo gregge virgola un solo Pastore. Cosa vuol dire quella virgola? Che Pastore e gregge sono la stessa cosa; non c’è bisogno di una “e” che li congiunga come fossero due cose, non c’è bisogno di metterli insieme perché sono distinti, sono un’unica realtà”.

Le persone che ci sono accanto appartengono già a Cristo, come noi. Hanno solo bisogno della sua Parola che li “conduca”, “bella e vera” nella carne della Chiesa inviata sino ai confini della terra. Ciò significa, concretamente, che, con Cristo, nell’altro possiamo ritrovare e riconoscere sempre un fratello, anche quando la ragione, il sentimento, e l’esperienza ci spingono a chiuderci e a lasciar perdere.

Perché nell’altro vive Cristo, che ha “deposto la sua vita” per lui; per Lui è santo, da Lui è amato, ed è proprio “questo il comando” che Gesù ha “ricevuto dal Padre”, amore allo stato purissimo. Nessuno, né noi, né chiunque altro, fosse anche il più grande peccatore, “ha tolto la vita” a Gesù: è Lui che, per amore di tutti, per l’amore del Padre che vibrava in Lui, “ha deposto la sua vita da se stesso” in un sepolcro. Ciò non significa minimizzare i peccati, ma solo far risplendere il suo amore, infinitamente più grande del più grande peccato.

Per riscattarci dalla menzogna che ci ha ingannato su Dio, doveva apparire questo amore infinito, che si getta tra le braccia assassine senza riserve, prima ancora che si fossero mosse per uccidere. Un amore che ha armato la mano del nemico perché “spurgasse” sino in fondo tutto il male e lo raggiungesse. Gesù si è “esposto” al peccato per poterlo distruggere nel suo amore.

Questo, infatti, è infinitamente più “potente” del demonio, e per questo Gesù, che è Dio, ha ha avuto il “potere di riprendersi” la sua vita, e con essa, anche quella di ogni uomo “rapito” dal “lupo”. Anche tu ed io, come ogni altro uomo; per questo, una volta “ripresi” da Gesù, siamo inviati, ad “esporre” con Lui la nostra vita per “riprenderla” insieme a quella di quanti sono già pescati dalla sua Croce, ma ancora non lo sanno. A far risuonare la “sua voce”, perché chi la ascolta cammini insieme a noi nell’unico gregge che si dirige verso il Cielo.

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Antonello Iapicca

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