È un mondo aperto, fatto di ponti e non di muri, quello che prospetta il cardinale Pietro Parolin nella “lectio magistralis” tenuta a Padova, per l’inaugurazione dell’anno accademico della Facoltà teologica del Triveneto. Un mondo dove vive una Chiesa che non è chiusa nei propri confini, ma si relaziona con l’esterno, spingendo ad usare la forza del dialogo, ragionevole e rispettoso, prima di quella economica e delle armi.
“Papa Francesco. Visione e teologia di un mondo aperto” è il tema della lectio del Segretario di Stato. E il porporato in 31 punti riesce a sintetizzare, analiticamente e lucidamente, la lettura di Bergoglio del mondo, con le sue vicende e i suoi protagonisti, dove l’intento è sì “critico” ma parimenti “costruttivo”. Perché, se costante è l’obiettivo finale del Papa di “non escludere”, altrettanto presente è il richiamo alla “necessità del dialogo” quale metodo “che appartiene anche alla ricerca teologica”.
Dialogo che, per Francesco, non significa esporre una “teoria” o scambiare delle idee, sottolinea il cardinale; dialogare, dal punto di vista del Pontefice, è il modo più alto per progredire nell’umanità, tenendo ben presente la realtà che è sempre “punto di partenza”. In questa visione, altro punto cardine è la “solidarietà”, garanzia di un mondo “alla ricerca di una reale giustizia e di un maggiore benessere”, ma al contempo attento agli ultimi e a “non abbandonare coloro che non riescono a mantenere i ritmi di un’efficienza spesso esasperata”.
“La vita sul pianeta – afferma infatti il Segretario di Stato – non può semplicemente ruotare intorno a modelli di sviluppo più dinamici che per la loro natura sono ritenuti efficienti, in una logica di potere da cui discende l’emarginazione dei più deboli e di quanti non sono in grado di rispondere alle aspettative del modello”.
L’immagine guida, per Parolin, è quella della “famiglia umana”, segnata da una coscienza che tiene conto del comune destino di tutti i popoli e che pertanto rifiuta la guerra mossa, “dietro le quinte”, da “interessi, piani geopolitici, avidità di denaro e potere, industria delle armi”.
In virtù di tale coscienza, prosegue il porporato, il dialogo si mostra necessario a tutti i livelli, in quanto “strada maestra” e “diplomatica” per risolvere le problematiche aperte, specie “in situazioni molto critiche”, come quelle “di conflitto in cui le cause vengono attribuite al fattore religioso anche se esso è presente il più delle volte solo nominalmente”.
Questa linea permane solida nella Chiesa dai tempi di Benedetto XV, il quale scongiurava i responsabili delle Nazioni europee a porre fine agli orrori della Prima Guerra mondiale facendo “prevalere ‘la forza morale del diritto’ su quella ‘materiale delle armi’”.
E anche oggi, di fronte alle minacce che vengono da diverse parti del mondo, Africa e Medio Oriente in particolare, la risposta della Santa Sede è la medesima. Anzi, afferma Parolin, “se i governi realizzano quella che è chiamata ‘la ragion di Stato’, esercitando un hard power attraverso la potenza economica finanziaria e le armi, la Santa Sede ha da portare a compimento una ‘ragion di Chiesa’, mediante un soft power fatto di convinzioni e comportamenti esemplari”. Essa, deve perciò “lavorare, anche mediante l’azione diplomatica, per creare più giustizia, prima condizione della pace”.
La riflessione del cardinale scende poi nello specifico andando a toccare un nervo scoperto: come fermare “l’avanzata delle forze del cosiddetto Califfato nel nord della Siria”. Ancora più preoccupante per il cardinale è, tuttavia, capire “cosa abbia spinto tanti giovani europei a partire alla volta della Siria per unirsi a quanti combattono usurpando il nome di Dio”.
Una risposta a questo problema “potrebbe essere l’azione militare degli Stati e l’invio di truppe a combattere contro di loro”. Ma quella che è veramente necessaria – dice – è “una risposta a lungo termine capace di colmare questo vuoto, questa solitudine percepita da molti giovani nei loro Paesi europei”.
Essa, soggiunge il porporato, si denota maggiormente in quella porzione di gioventù d’Europa “che sembra aver dimenticato i valori propri della civiltà cristiana e che l’argomentazione teologica ha potuto sviluppare rendendoli parte della cultura dell’antico Continente”. La risposta a lungo termine da dare a queste generazioni “alla ricerca di un ideale” è allora quella di “prendersi cura” di loro, facendo capire “che ci sono altri modi per vivere la vita che non sia il partecipare ad una guerra”.
Il primo ministro vaticano ribadisce quindi l’invito di Papa Francesco al dialogo interreligioso con l’islam, portato avanti però in un “clima di rispetto e fiducia reciproca”. Esso, rimarca, “è costruttore di pace e cioè artefice di un’opera di grande respiro che potrebbe iniziare nella didattica e nello studio delle Facoltà di Teologia se esse saranno in grado di farne strumento non di contrapposizione, ma di ricerca della verità”.
Dunque una scommessa per il futuro, ma anche una sfida: “edificare una mentalità e quindi una società sul lungo periodo”. In fin dei conti, osserva Parolin, “è ciò che fanno molti missionari in ogni continente, quando si costruiscono scuole e ospedali, quando redigono grammatiche o dizionari, quando promuovono lo sviluppo economico e sociale a vantaggio delle persone e della loro dignità”. Ed è quello che fa il Papa “attraverso i suoi ripetuti appelli alla pace e alla misericordia”, come pure durante i suoi viaggi in Italia o nel mondo.
“Non è questo che fa del Papa la quarta figura più influente del mondo nel 2014, secondo il Magazine Forbes?”, domanda il Segretario di Stato. Tuttavia, constata con amarezza, “questa straordinaria influenza mediatica di Papa Francesco non riesce a celare i problemi più profondi determinati dalle trasformazioni della nostra civiltà europea occidentale”.
L’immagine più esemplificativa è il capo chino di Francesco sul muro che a Betlemme separa israeliani e palestinesi. Il Papa “soffre” a vedere questi muri che frammentano popoli e nazioni, afferma il cardinale. Muri fisici come in Medio Oriente, ma anche muri ideali che “sembrano quasi voler affermare che il dialogo è impossibile, che le differenze di credo sono incompatibili, dimenticando che una condizione di pace e il rispetto della vita sono elementi fondamentali per garantire una convivenza rispettosa della dignità di ogni persona, della sicurezza dei diversi popoli e dello statuto di ogni religione”.
Nella lectio del cardinale c’è posto infine per una riflessione sulla eutanasia, e sulla “volontà e determinazione in alcuni casi, di diversi Paesi europei” di conferire ad essa “lo status di diritto umano”. In tal senso, egli richiama il concetto greco di “ubris”, ovvero la tracotanza violenta di chi vuole equipararsi a Dio, perché solo così si spiega “questa volontà della ragione umana di intervenire in uno dei processi fondamentali della vita, il rispetto dei tempi della vita e della morte”.
“Che cosa è questa pretesa della ragione a voler controllare il flusso del tempo? Da dove nasce questa ubris così potente da fondarsi su se stessa e di disporre di un potere illimitato che giunge a rifiutare ogni apertura nei confronti di chi pone delle obiezioni?”, domanda infatti il premier vaticano. Esorta pertanto a “interrogarsi non solo con i principi e le argomentazioni della morale”, ma “di fronte a questo vuoto esistenziale”, farsi trovare provvisti “anche della più piccola speranza che vada oltre la ragione per aprirci alla relazione, alla solidarietà, all’amore invece di rinchiuderci nella morte”.