Davanti alle barbarie dell’Isis, al 14enne arso vivo in Pakistan da coetanei, ai filmati degli etiopi e dei copti sgozzati come agnelli, davanti a notizie come 12 persone gettate in mare e date in pasto ai pesci solo perché cristiani o di 149 studenti massacrati nella loro Università per lo stesso motivo. Davanti, insomma, a questi martiri, questi “Stefani” del giorno d’oggi, come li ha chiamati ieri a Francesco a Santa Marta, sorge istintiva una domanda: “C’è ancora spazio per dialogare con i musulmani?”.
Una risposta chiara vuole offrirla la Santa Sede attraverso il dicastero deputato a tali tipi di tematiche: il Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, il quale ha diffuso oggi un messaggio a firma dal presidente, il cardinale francese Jean-Louis Tauran. Il testo parte proprio dall’interrogativo in questione, insito nel cuore e nella testa di tante persone: “C’è ancora spazio per dialogare con i musulmani?”. “La risposta è: si, più che mai”, afferma Tauran, chiarendo sin dalle prime righe l’approccio della Santa Sede.
Davanti ad una islamofobia dilagante, il cardinale chiede quindi di fare un passo indietro e di ‘non fare di tutta l’erba un fascio’. Anzitutto perché – spiega – “la grande maggioranza dei musulmani stessi non si riconosce nella barbarie in atto”.Purtroppo – osserva poi – la parola “religione” oggi viene spesso associata alla parola “violenza”, e ciò rende difficile il compito dei credenti, chiamati a “dimostrare che le religioni sono chiamate ad essere foriere di pace e non di violenza”.
“Uccidere, invocando una religione, non è soltanto offendere Dio ma è anche una sconfitta dell’umanità”, sottolinea quindi il porporato, rievocando le parole che il Papa emerito Bendetto XVI espresse nel saluto al Corpo Diplomatico del 9 gennaio 2006.
Quasi un decennio prima del delirio estremista in atto, Ratzinger già parlava infatti del pericolo degli scontri fra civiltà e, in particolare, del terrorismo organizzato. Affermò quindi che “nessuna circostanza vale a giustificare tale attività criminosa che copre di infamia chi la compie e che è tanto più deprecabile quando si fa scudo di una religione, abbassando così la pura verità di Dio alla misura della propria cecità e perversione morale”.
La situazione è del tutto degenerata oggi, e proprio in questi ultimi giorni – osserva il cardinale Tauran – “assistiamo purtroppo ad una radicalizzazione del discorso comunitario e religioso, con i conseguenti rischi dell’incremento dell’odio, della violenza, del terrorismo e alla crescente e banale stigmatizzazione dei musulmani e della loro religione”.
In tale contesto i credenti – si legge nel messaggio – sono “chiamati a rafforzare la fraternità e il dialogo”, in quanto essi costituiscono “un formidabile potenziale di pace”, perché certi “che l’uomo è stato creato da Dio e che l’umanità è un’unica famiglia e “che Dio è Amore”.
“Continuare a dialogare, anche quando si fa l’esperienza della persecuzione, può diventare un segno di speranza”, sottolinea allora Tauran. “Non è che i credenti vogliano imporre la loro visione della persona e della storia – precisa – ma vogliono proporre il rispetto delle differenze, la libertà di pensiero e di religione, la salvaguardia della dignità umana e l’amore della verità”.
Il presidente del dicastero per il dialogo interreligioso esorta dunque ad avere “il coraggio di rivedere la qualità della vita in famiglia, le modalità di insegnamento della religione e della storia, il contenuto delle prediche nei nostri luoghi di culto”. “Soprattutto la famiglia e la scuola – evidenzia – sono le chiavi perché il mondo di domani si basi sul rispetto reciproco e sulla fraternità”.
Infine unisce la voce di tutti i cristiani a quella di Papa Francesco, di cui ricorda le parole pronunciate nella Diyanet ad Ankara, durante il suo viaggio in Turchia del novembre 2014: “La violenza che cerca una giustificazione religiosa merita la più forte condanna, perché l’Onnipotente è Dio della vita e della pace. Da tutti coloro che sostengono di adorarlo, il mondo attende che siano uomini e donne di pace, capaci di vivere come fratelli e sorelle, nonostante le differenze etniche, religiose, culturali o ideologiche”.