Pasquale è un vivace bambino di dieci anni. Ha da poco ricevuto la primacomunione, vive ad Amorosi (Benevento) con la sua famiglia e tra qualche giorno, il 17 maggio, sarà a Roma, per la canonizzazione di Maria Cristina Brando, la fondatrice delle suore Vittime espiatrici di Gesù Sacramentato. Il miracolo, che ha condotto agli onori degli altari la beata campana, è lui. Non sarebbe mai potuto nascere perché, per un gravissimo e irreversibile problema alle tube, sua madre, Maria Angela Di Mauro, non può portare a termine la gravidanza.
Non poteva quando è nato suo figlio e non può tuttora. Se adesso Pasqualino ride e gioca come tutti i bimbi della sua età, il merito è di quel miracolo chiesto a suor Maria Cristina, ottenuto dopo aver detto un “no” deci so alla fecondazione artificiale: «La mia è una testimonianza scomoda», dichiara oggi, «che può far male alle tante donne che non riescono a vivere la propria maternità: a loro voglio dire che comprendo il dolore che le soffoca, ma la provetta non è la soluzione».
Lei non poteva avere figli…
Non posso averli tuttora: è proprio per questo che la consulta dei medici prima, quella dei teologi e dei cardinali dopo, ha riconosciuto il miracolo. La gravidanza che ha portato alla nascita di Pasquale è un evento unico, che non è avvenuto perché io sono “guarita”, ma per volere di Dio, grazie all’intercessione di suor Maria Cristina, che ha permesso la “discesa miracolosa” dell’embrione nell’utero.
Qual è il suo problema?
Un grave e irreversibile danno alle ciglia delle tube: io e Carmine, mio marito, possiamo concepire, ma l’embrione attecchisce nelle tube che, dopo poco, scoppiano, con gravi emorragie. Quando, nel 2000, rimasi incinta rischiai di morire.
Che cosa accade dopo?
Nel 2002 ebbi una seconda gravidanza. Ma, anche allora, fu extrauterina. Il medico ci informò che il danno alle mie tube era irreversibile, ma io e mio marito non ci fermammo. Consultammo molti medici e il responso era lo stesso: l’unico modo per avere un bambino sarebbe stato quello della fecondazione artificiale.
Perché non avete accettato?
La tentazione c’è stata, e anche forte. Però, mentre il medico spiegava, io e mio marito ci siamo sentiti “fuori posto”, perché parlava degli embrioni come se fossero “cose”. Allora, in Italia non c’era ancora la legge 40, quella che regola la procreazione assistita. Ci dissero quindi che sarebbero stati “preparati” sette-otto embrioni per impiantarne tre, con la speranza che almeno uno avesse attecchito. Io e mio marito domandammo che cosa ne sarebbe stato di quelli non impiantati, che comunque erano nostri figli…
Che cosa risposero?
Che potevamo scegliere se congelarli, donarli o distruggerli! Rimasi sconvolta. Eppure, non ancora volevo desistere…
Perché cambiò idea?
All’inizio pensai di “preparare” soltanto due embrioni e di farli impiantare entrambi. Mio marito però mi fece riflettere che non sarebbe stato comunque naturale, perché il bambino – anche se fosse nato – non sarebbe stato il frutto di un atto d’amore: il dono della sessualità non può essere scisso dalla procreazione. Ho approfondito le motivazioni per cui la Chiesa dice “no” alla provetta è ho capito che tutto ciò che ci ha donato il Signore è per il nostro bene e che i comandamenti non sono un divieto. E poi ogni forma di accanimento è sbagliata: da ogni croce può nascere un fiore, pur nella sofferenza. Così, dopo esserci confrontati con il nostro parroco don Marino, abbiamo deciso di accettare la volontà di Dio: potevamo trovare altri modi per esprimere la nostra genitorialità, come con l’adozione per esempio.
Come è avvenuto l’incontro con suor Maria Cristina?
Quasi per caso: in un piccolo paese come il mio, ci si conosce tutti e si sa tutto. Così, le suore di Amorosi, che gestiscono le scuole, erano venute a conoscenza della mia situazione e, a mia insaputa, pregavano per me. Nel 2003, per la beatificazione della fondatrice, mi invitarono a Roma e, durante la veglia di preghiera, ebbi modo di riflettere sulle lettere di suor Maria Cristina. Mi colpì soprattutto una frase: non si può amare Dio, senza amare il prossimo. Allora capii…
In che senso?
Mi resi conto che, in quel momento, il mio prossimo erano gli embrioni che avrei sacrificato. Piangendo, misi la mia vita nelle mani di Dio. E rimasi stupita perché, pur nella sofferenza, ero serena: era già questo il miracolo, l’aver accettato la Sua volontà.
E dopo?
L’anno successivo, per le 40 ore, le suore mi invitarono all’adorazione eucaristica. Andai con mio marito e, in quel momento, chiesi la grazia di avere un figlio: la chiesi in dialetto, come a un’amica. Dopo nove mesi, è nato Pasquale.
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Fonte: BenEssere – La salute con l’anima, maggio 2015, pp. 24 e 26 (in uscita giovedì 23 aprile)