Scriveva Teresa d’Avila (1515-1582), la grande santa spagnola della quale quest’anno ricorre il quinto centenario: “Noi non siamo angeli, ma abbiamo un corpo. Voler fare gli angeli, stando sulla terra, è una pazzia; ordinariamente, invece, il pensiero ha bisogno d’appoggio, benché talvolta l’anima esca così fuori di sé, e molte altre volte sia così piena di Dio, da non aver bisogno, per raccogliersi, di alcuna cosa creata. Ma questo non avviene di frequente”.
L’esperienza estatica, come apprendiamo dai racconti dei mistici, è un momento di intima relazione con Dio, un istante di illuminazione che non può essere tradotto in concetti logici. Un essere umano che abbia vissuto tale esperienza e che tenti, per quanto possibile, di comunicarla agli altri, non può avvalersi del linguaggio corrente, inadeguato ad esprimere l’inesprimibile, ma deve necessariamente ricorrere al linguaggio evocativo e simbolico della poesia.
Nella storia della letteratura, l’ispirazione di carattere mistico è una costante che ritroviamo sia nei lasciti testimoniali dei santi (il più recente dei quali è proprio San Giovanni Paolo II, che ci ha lasciato un notevole corpus di opere poetiche), sia nell’opera di autori più o meno grandi ma comunque dotati di una specifica sensibilità rivolta alla dimensione della Fede.
Ecco dunque una poesia di orientamento mistico di un autore contemporaneo, Lunedì in Albis a Chemnitz di Andrea Rebeggiani, i cui versi sembrano evocare uno stato d’estasi: “Uno squarcio, poi, in quel velo, / altrettanto improvviso. / La luce irrompe e inonda / le strade, i campi, le case: / un diluvio iridescente…”. Il prof. Rebeggiani, nato a Taranto nel 1945, risiede in Germania nella città di Chemnitz (Sassonia); docente di lettere in pensione, è padre di nove figli, tutti sposati ed impegnati con le loro famiglie nella missione di evangelizzazione.
LUNEDÌ IN ALBIS A CHEMNITZ
di Andrea Rebeggiani
Uno spesso velo nebbioso
ottunde il cielo,
fitta cortina che spegne lo sguardo.
Folate di vento gelide, improvvise,
striate di neve ghiacciata
che sferza i volti
e picchia sulle porte e le finestre.
Uno squarcio, poi, in quel velo,
altrettanto improvviso.
La luce irrompe e inonda
le strade, i campi, le case:
un diluvio iridescente
che ovunque s’insinua
vita recando e gioia,
che ridesta dal sonno
noi morti in questo luogo
accidioso e immobile.
Ancora una battaglia hai vinto,
Signore,
di questa guerra spietata
contro i poteri di Satana.
Nella piana di Meghiddo è cominciata
questa guerra,
più di duemila anni fa, quando,
quel giorno in Giudea,
nella tua città, dove fosti sepolto,
Tu sei risorto!
Og e Magog scatenati e urlanti,
ma votati allo sterminio,
di volta in volta, in ogni generazione.
Anche oggi – ce l’ha detto l’Angelo –
abbiamo conquistato
in Te, con Te e per Te
un campo, una vita e due e tre
e molte fino alla fine della tua venuta.
La tua luce attraverso lo squarcio:
demoni terrorizzati, annientati, dissolti…
una parte della schiera numerosa
che opprime questa città.
Noi combattiamo, Signore, con Te:
fino a quando?
Liberaci e salva i nostri fratelli,
che qui gemono nell’ombra della morte!
***
Ed ecco, invece, un importante esempio di letteratura mistica che appartiene al passato. Nella spiritualità del Seicento l’affezione a Gesù si esprime anche attraverso la poesia, ossia un linguaggio simbolico privilegiato dai mistici in quanto capace di una visione più ampia e meno riduttiva del linguaggio logico. Partecipazione emotiva e passionalità sono ben presenti, come dimostra la composizione A Giesu orante nell’orto, scritta dalla venerabile clarissa Francesca Farnese (1593-1651).
A GIESU ORANTE NELL’ORTO
di suor Francesca Farnese
Dal sanguigno sudor bagnata, e molle,
Mir’alma mia la faccia gratiosa
Di quel Signor, che giù dall’alto colle
Del Ciel discese in questa valle ombrosa;
E delle colpe tue la soma volle
Pigliar sopra di sé grav’, e penosa,
E per trar tè da ceppi, e da catene,
Non si curò soffrir tormenti, e pene.
Anzi bramoso ogn’hor di più patire
Per tè c’havea creata a sua sembianza,
volle prima del tempo in sé sentire
Dè suoi fieri dolor l’aspra possanza;
E però fece in un momento unire,
(Ahi fiero duol, ch’ogn’altro duolo avanza)
E spine, e chiodi, e croce, e fruste, e quante,
Pene dovean soffrir le membra sante.
E tutte unite intorno al Divin core,
L’oppresser sì, che respirar’à pena
Poteva, il caro mio dolce Signore,
Tant’era l’alma sua di doglia piena;
Onde converso in un mortal sudore,
Di sangue, che gli uscia per ogni vena,
Restar le membra sue Divine, e Sante
Per la debilità lasse, e tremante.
Poi mirarlo, alma mia, di sangue pieno
Offrir se stesso al Padre per tu’ amore
Pronto à pagar per le tue colpe à pieno,
Dando se stesso al Padre per tu’ amore,
Pronto a à pagar per le tue colpe à pieno,
Dando se stesso à morte di buon core:
Miralo ancor su nel paterno seno,
Come tuo Dio, come tuo Creatore,
E stupisci, vedendo in tal bassezza
Quell’istesso, che miri in tant’altezza.
E poi che sai, che tù fusti cagione,
Ch’ei si trovasse in sì doglioso stato,
Donati tutt’à lui vinta, e prigione,
Edaggli il cor qual schiavo incatenato;
Mostragli, che l’acerba sua passione
Gradisci, e’l sacrificio accetto, e grato,
Ch’offerse al Padre Eterno per tu’amore
Ti fa sua schiava, e ti rapisce il core.
***
E torniamo ad un autore contemporaneo, uno dei più grandi poeti del ‘900: David Maria Turoldo (1916-1992), il frate “testimone e servo della Parola”, per il quale “anche la poesia più disperata può farsi occasione di gioia; e nella fede, anche il sacramento dell’estrema unzione è comunque apportatore di speranza…”. Il titolo della bellissima poesia che segue – Ti sento, Verbo – contiene già in sé quel senso di metafisica identificazione col tutto che viene descritto nelle esperienze mistiche.
TI SENTO, VERBO
di David Maria Turoldo
Ti sento, Verbo, risonare dalle punte dei rami
dagli aghi dei pini, dall’assordante
silenzio della grande pineta
– cattedrale che più ami – appena
velata di nebbia come
da diffusa nube d’incenso il tempio.
Subito muore il rumore dei passi
come sordi rintocchi:
segni di vita o di morte?
Non è tutto un vivere e insieme
un morire? Ciò che più conta
non è questo, non è questo:
conta solo che siamo eterni,
che dureremo, che sopravvivremo…
Non so come, non so dove, ma tutto
perdurerà: di vita in vita,
e ancora da morte a vita
come onde sulle balze
di un fiume senza fine.
Morte necessaria come la vita,
morte come interstizio
tra le vocali e le consonanti del Verbo,
morte, impulso a sempre nuove forme.
***
E poiché abbiamo iniziato citando Santa Teresa d’Avila, la religiosa spagnola famosa in tutto il mondo per la riforma dell’Ordine Carmelitano, concludiamo con un componimento scritto da San Giovanni della Croce (1542-1591), collaboratore di Teresa e fondatore dei Carmelitani Scalzi, che viene considerato uno dei maggiori poeti in lingua spagnola nonostante abbia lasciato un corpus poetico che
ammonta a non più di 2.500 versi. Il componimento, che pubblichiamo in lingua originale con traduzione sottostante, s’intitola Tras de un amoroso lance (Dopo un amoroso slancio).
TRAS DE UN AMOROSO LANCE
di Giovanni della Croce
Para que yo alcance diese
a aqueste lance divino,
tanto volar me convino
que de vista me perdiese;
y, con todo, en este trance
en el vuelo quedé falto;
mas el amor fué tan alto,
que le di a la caza alcance.
Cuando más alto subía
deslumbróseme la vista,
y la más fuerte conquista
en oscuro se hacía;
mas, por ser de amor el lance,
di un ciego y oscuro salto,
y fui tan alto, tan alto,
que le di a la caza alcance.
Cuanto más alto llegaba
de este lance tan subido,
tanto más bajo y rendido
y abatido me hallaba;
dije: No habrá quien alcance;
y abatíme tanto, tanto,
que fui tan alto, tan alto,
que le di a la caza alcance.
Por una extrana manera
mil vuelos pasé de un vuelo,
porque esperanza de cielo
tanto alcanza cuanto espera;
esperé sólo este lance,
y en esperar no fui falto,
pues fui tan alto, tan alto,
que le di a la caza alcance.
TRADUZIONE: Per poter raggiungere / questo slancio divino, tanto volar mi fu utile / a perdermi di vista; / malgrado ciò, in questo punto, / del volo mi trovai privo; / ma l’amore fu così grande, / che raggiunsi la mia preda. / Più alto salivo, più / la vista si abbagliava, / e la più aspra conquista / avvenne nelle tenebre; / ma d’amore era lo slancio, e / con un cieco e oscuro salto / mi trovai in alto, così in alto / che raggiunsi la mia preda. / Quanto più alto giungevo / in questo slancio sublime, / tanto più basso, arreso / e umiliato mi trovavo. / Dissi: non vi sarà chi l’arrivi, / e mi umiliai tanto tanto / che mi trovai così alto / che raggiunsi la mia preda. / In una strana maniera / mille voli divennero uno, / perché la speranza del cielo / tanto ottiene quanto spera; / attesi solo questo lancio, / e nello sperare non sbagliai, / che mi trovai così alto / che raggiunsi la mia preda.
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