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"Francesco sul genocidio ha squarciato il velo. Da oggi basta ipocrisie"

Intervista a Franca Giansoldati, vaticanista de Il Messaggero, autrice del libro “La marcia senza ritorno. Il genocidio armeno”, ‘benedetto’ anche dal Papa

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Cento anni non sono abbastanza per dimenticare. Specie se si tratta di una strage come il “Grande Male” che travolse il popolo armeno agli inizi del secolo, sterminando un milione e mezzo di uomini, donne, bambini, famiglie. Lo sa bene Franca Giansoldati, affermata vaticanista de Il Messaggero, autrice del libro “La marcia senza ritorno. Il genocidio armeno” (Salerno editrice) di recente pubblicazione. Un libro per cui la giornalista ha impiegato anni di studio e ricerche, versando anche qualche lacrima nell’approfondire i dettagli di una vicenda crudele che rimane tuttavia un buco nella storia. Intervistata da ZENIT, la Giansoldati illustra il suo lavoro, ‘benedetto’ anche dal Papa, e spiega il motivo delle reazioni esagitate della Turchia verso le parole del Pontefice di domenica scorsa riguardo a quello che fu, a tutti gli effetti, “il primo genocidio del XX secolo”.
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Il Papa ha detto “genocidio”. E questo segna una svolta nella storia del papato e del Vaticano, nonostante già Wojtyla avesse pronunciato questa parola nella “Dichiarazione congiunta” con Karekin II del 2001. Secondo lei, come va interpretato il gesto di Bergoglio? Azzardo o mossa coraggiosa?
Il Papa ha squarciato il velo e da oggi in poi impedisce a chiunque l’ipocrisia, all’interno della Chiesa e fuori, ai laici come ai religiosi, ai credenti come ai non credenti. Il peso morale che ha il Papa è enorme e il fatto che abbia utilizzato questa parola, dopo cent’anni, non era scontato ma un atto dovuto. Perché è giusto che la Chiesa di Roma riconoscesse finalmente una pagina di storia che è sempre stata messa da parte, trattata con molti “tatticismi diplomatici”, dimenticando però che lì sono morte un milione e mezzo di persone, anzi di cristiani. Quindi la celebrazione di domenica scorsa è stata un momento commovente, come se la Chiesa avesse accompagnato nell’ultimo viaggio questi morti, li avesse sepolti, li avesse riconosciuti. E la parola “genocidio” non poteva che essere l’ombrello per inquadrare ciò che è stato.
Perché dà così fastidio la parola “genocidio”?
“Genocidio” è un termine coniato nel 1948 dopo la Seconda Guerra mondiale, ma all’epoca dello sterminio degli Armeni era sconosciuta. Si trovano, tuttavia, parole che ne richiamano il senso nelle documentazioni dell’epoca, ovvero i documenti conservati negli archivi del Vaticano, ma anche negli archivi del Ministero degli Esteri tedesco, in quello americano e nel nostro italiano. Sono i documenti che scriveva Gorrini, console onorario a Trebisonda fino al giugno del 1915, che già allora come testimone oculare scriveva quello che vedeva passare da sotto le finestre del consolato. E cioè che non erano dei “pogrom”, delle violenze spot: lui vedeva un piano sistematico, studiato a tavolino, meticolosamente messo a punto per togliere dall’Impero ottomano una minoranza considerata un po’ come un cancro. Sia perché in quel periodo c’era il frutto avvelenato dei nazionalismi, sia perché gli Armeni costituivano una minoranza non omogenea. Erano cristiani. E questo è un elemento che poi è diventato non secondario per l’evolversi della vicenda.
In che senso?
Il genocidio degli armeni nasce su basi politiche ed economiche, perché l’Impero ottomano era assolutamente indebitato e voleva quindi incamerare i beni degli armeni che erano una minoranza particolarmente benestante. Ma l’elemento fondamentale per capire la connotazione religiosa di questo sterminio è il fatto che una minoranza minima degli armeni, pur di salvarsi decise di abbracciare l’Islam e rinnegare il Cristianesimo. Decise, cioè, di “omogeneizzarsi” alla Turchia musulmana. E si sono salvati. Tutti! Quindi, alla fine, il fatto religioso in questo progetto di cancellare tale popolo dalla faccia della terra – come scriveva nei rapporti l’ambasciatore americano Morgenthau – se all’inizio non fu determinante, in seguito diventò una benzina che alimentò l’odio, la caccia al diverso.
La Turchia, però, si ostina in un atteggiamento negazionista. Lo dimostrano le reazioni di questi giorni: dalla convocazione del nunzio alle ultime aggressive dichiarazioni di ieri del presidente Erdogan contro il Pontefice. Perché?
Anzitutto per la questione dei risarcimenti economici che non è affatto secondaria, perché potrebbe creare veri problemi economici alla Turchia…
Eppure Erdogan, nella lettera di “condoglianze” agli armeni del 23 aprile 2014, diceva che la Turchia sarebbe stata disposta a pagare nel caso fosse stata riconosciuta una responsabilità…
Quella lettera l’ho letta in filigrana ed era strutturata per essere negazionista. Il presidente parla di vicinanza al dolore ma tenendo presente che c’era anche il dolore dei turchi e via dicendo. Per quanto mi riguarda Erdogan sta perdendo una grandissima opportunità, che il Papa domenica a San Pietro gli ha offerto su un piatto d’argento: la possibilità di cominciare un percorso, sicuramente accidentato e lunghissimo, ma che potrebbe portare ad una memoria condivisa e ad un processo di pace. Per quella regione sarebbe un tesoro. C’è da dire comunque che le reazioni alle parole del Papa sono state sopra le righe perché in Turchia siamo in piena campagna elettorale, e Erdogan ha paura di perdere i consensi soprattutto della parte di destra. Quindi era quasi scontata l’agitazione di questi giorni.
C’è un rischio per i rapporti diplomatici tra Santa Sede e Turchia?
Assolutamente no. Ci sono buoni rapporti, l’abbiamo visto anche durante il viaggio del Papa a novembre. Certo in questo momento sono relazioni “stressate”. C’è da sperare che non arrechino danni alla comunità cattolica che sta lì: ventimila persone, una minoranza piccolina, che però vive in condizioni difficili, soprattutto nelle zone periferiche. In ogni caso c’è un altro aspetto da considerare…
Cioè?
Che ci sono ancora due morti che pesano sulla coscienza della politica turca, per cui ancora oggi non si hanno risposte: la morte del vescovo Padovese e di don Andrea Santoro, entrambi uccisi al grido di “Allah Akbar”. Può anche essere che sia stato “il matto di turno” ad ammazzarli, però bisogna riflettere e dare risposte. Magari riflettendo sul clima di odio che evidentemente si cova sotto la cenere. La Turchia è rimasta finora in silenzio.
Lo è rimasta pure quando l’anno scorso, ad agosto, l’Isis ha distrutto la chiesa di Deir Ezzor, “l’Auschwitz degli armeni”…
Esattamente. Mi ha molto colpito pure il fatto che il 24 di aprile, mentre in tutti i paesi del mondo dove la diaspora armena ha messo radici si celebreranno Messe e ci saranno rintocchi delle campane a morto, in Turchia no. Perché c’è il divieto di ricordare questo momento, anche da un punto di vista religioso. Invece anche un solo rintocco di una campana potrebbe essere un simbolo.
Tornando a Giovanni Paolo II, anche lui usò la parola “genocidio” e anche lui provocò reazioni furenti.
Si, ma non così violente. Ricordo che Giovanni Paolo II voleva andare a Yerevan, ma fu costretto a spostare il viaggio diverse volte. Ci vollero 2-3 anni di preparazione perché la Turchia esercitava pressioni, metteva ostacoli, quindi la diplomazia della Santa Sede procedeva con cautela. Il cardinale Sodano suggerì al Papa di rimandare il viaggio, di non partire, di non utilizzare la parola “genocidio”. Ma Giovanni Paolo II, oltre alla malattia che avanzava, sentiva un peso morale perché nel 2001 cadevano i 1700 anni della conversione dell’Armenia al cristianesimo, e lui voleva celebrare questo evento. Alla fine si è imposto sulla stessa diplomazia.
Perché lo fece?
Perché era un atto dovuto! Perché quel milione e mezzo di persone non sono morte di raffreddore. A volte le statistiche diventano fredde, ma proviamo a mettere davanti agli occhi un milione e mezzo di volti, di bambini, di donne stuprate, di madri che dai convogli buttavano i propri figli nei fiumi perché non riuscivano più a vederli morire di fame… Proviamo a immaginare questa crudeltà infinita, come se fosse la sequela di un film, forse un sussulto alla coscienza ti viene. E Bergoglio quando parla di “ecumenismo del sangue” – un concetto teologico che, secondo me, è di una profondità totale e dirompente, che avrà riflessi politici – riprende quello che fece Wojtyla all’epoca: imporsi sulla diplomazia.
Nel suo libro “La marcia senza ritorno”, recentemente pubblicato, come emerge tutto questo?
Io non sono una storica ma una cronista, quindi ho cercato di divulgare l’entità di questo buco nella storia. Sono andata a pescare in vari archivi, anche ne Il Messaggero, dove è stata pubblicata la prima intervista in Italia con un diplomatico che testimonia quei fatti: il famoso Gorrini, ora considerato un “Giusto” dall’Armenia. Soprattutto mi sono basata sui documenti vaticani. Il lavoro grosso l’ha svolto padre Georges Ruyssen, uno storico gesuita belga che per anni ha letto, catalogato e pubblicato in sette tomi tutto quello che in quel periodo ha avuto a che fare con l’evento. C’è di tutto… Quando ho incontrato padre Georges gli ho detto: “Mentre leggevo le tue pagine e scrivevo sono scoppiata a piangere…”. E lui mi ha risposto: “Anche io”. Credo che questo materiale possa dare qualunque tipo di risposta agli storici. Anche agli storici turchi.
Come mai dopo tanti anni di Vaticano, si è interessata a questo tema?
È stato quasi un caso. A metà degli anni ’90 si cominciava a parlare del riconoscimento del genocidio al Parlamento italiano. Io all’epoca lavoravo all’Adnkronos e spesso mi capitavano dei comunicati sul tema. Ho iniziato a interessarmi. Un campanello mi era suonato già dall’Università: sono laureata in Scienze politiche con indirizzo storico e, mentre sostenevo numerosi esami sulla Seconda Guerra mondiale, sullo stermino nazista ecc, sul genocidio armeno non ho letto neanche tre righe. Ancora oggi è così: qualche tempo fa sono andata a parlare in un Liceo di Roma e i ragazzi non sapevano assolutamente nulla di questa vicenda. Sono rimasti sconvolti.
È vero che ha mandato una copia del libro anche al Papa?
Sì… A dir la verità lui ha letto anche le bozze prima della pubblicazione. Il Papa incoraggia molto tutte le ricerche che possono aiutare a divulgare con occhi di verità e obiettività quello che è stato.
A proposito di Bergoglio. Lei lo ha conosciuto da vicino, lo ha anche intervistato diventando la seconda donna nella storia ad intervistare un Pontefice. Alla luce di questo e della sua esperienza ventennale di vaticanista, come riassumerebbe in una frase questo pontificato?
Papa Francesco riuscirà a portare la periferia al centro. Degli eventi periferici, marginali, lontani, non solo dal punto di vista geografico ma anche storico, lui li ha portati al centro dell’attenzione mondiale. E quello che è accaduto domenica in Basilica lo dimostra.
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Salvatore Cernuzio

Crotone, Italia Laurea triennale in Scienze della comunicazione, informazione e marketing e Laurea specialistica in Editoria e Giornalismo presso l'Università LUMSA di Roma. Radio Vaticana. Roma Sette. "Ecclesia in Urbe". Ufficio Comunicazioni sociali del Vicariato di Roma. Secondo classificato nella categoria Giovani della II edizione del Premio Giuseppe De Carli per l'informazione religiosa

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