Toccare e vedere Cristo risorto

Commento al Vangelo della Domenica “in albis”

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E’ passata una settimana dal giorno di Pasqua, ma forse ci troviamo come Tommaso, ancora sconvolti perché, nonostante i fratelli, i pastori e i catechisti ci abbiano annunciato di aver visto il Signore risorto, nel nostro intimo permangono i dubbi.

Bene, è arrivato il momento di affrontarli, senza reticenze. Accettiamo che non siamo ancora giunti alla fede adulta, quella che sa vedere in ogni circostanza della vita l’occasione per fare Pasqua con Cristo, per passare da se stessi agli altri, in un amore senza condizioni.

Accettiamo che siamo perfettamente d’accordo con Tommaso, e oggi, guardando alla nostra vita a una settimana di distanza dal giorno di Pasqua, possiamo ripetere con lui: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò”. Pensi che non sia così? Vediamo allora che cosa accadde a Tommaso.

Di Gesù egli aveva un’esperienza più viva e familiare delle altre, un ricordo più fresco, tanto intenso e struggente da fargli sanguinare il cuore dal dolore. Aveva l’esperienza delle sue ferite: lo aveva visto mentre lo inchiodavano alla croce; lo aveva contemplato, forse impaurito e da lontano, mentre pendeva agonizzante da quel legno. Probabilmente le aveva anche toccate, accarezzate, baciate; forse aveva intinto il lembo del suo mantello nel loro sangue.

Insomma, per Tommaso Gesù era il suo Maestro crocifisso; per credere aveva bisogno di quel segno concreto, l’unico che poteva riconoscere. Di più: Tommaso era chiamato “Didimo”, che significa “gemello”. Dunque, Tommaso stava cercando, come tutti i gemelli quando si separano dal fratello, la parte di sé che gli era venuta meno! Cercava un segno nelle piaghe di Gesù, perché cercava un senso alle sue ferite, al dolore della sua vita: infatti, “colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli… Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anch’egli ne è divenuto partecipe ” (cfr. Eb. 2, 11-12). 

Tommaso, mosso dalla relazione nella carne con Gesù, il primo impulso, istintivo, era andato a cercare il suo gemello, l’unica parte di sé che poteva dare compimento e completezza alla sua vita; ma lo era andato a cercare lontano dalla verità, paradossalmente, proprio lontano dalla carne di Gesù, dal corpo di Cristo che è vivo nella comunione della Chiesa, la comunità dei suoi fratelli.

Forse era andato a cercarlo alla tomba, come la Maddalena; forse non si rassegnava a vedere la carne della propria carne scendere e marcire in un sepolcro; forse Tommaso stava rovistando tra le speranze deluse, i progetti restati in sospeso, le zone oscure del passato dove aveva sbagliato qualcosa; forse cercava la pace tra i sensi di colpa mai sopiti, tra le angosce di quella relazione così importante ma scivolata via senza poterci fare nulla. O forse voleva, semplicemente, restare solo a piangere il suo dolore.

Ma la sua relazione con il Maestro era stata anche qualcosa di più; lo aveva sentito vibrare nell’anima il suo amore soprannaturale, ne aveva percepito la tenerezza, e questa memoria mai sopita, come quella del figlio prodigo, lo ha spinto a tornare nel luogo dove ancora non lo aveva cercato. Qualcosa lo aveva attirato nella stanza dove aveva ricevuto dalle sue mani il suo corpo e il suo sangue; in quell’intimità che solo si sperimenta nella comunione con i fratelli.

Non è la nostra situazione di oggi? Non siamo tornati anche noi in parrocchia, con gli stessi sentimenti di Tommaso? Abbiamo tentato di pregare per conto nostro, abbiamo fatto sacrifici, digiuni, fioretti. Ci siamo impegnati ad aiutare i più deboli. Ma la relazione con Gesù è restata sullo sfondo, Lui c’è sì, ma… Ma non è l’Amato del nostro cuore, non è l’Unico che colma la nostra vita, il primo a cui pensiamo quando ci svegliamo e l’ultimo prima di addormentarci. Viviamo proprio come un gemello che non vede suo fratello da decenni, nello struggimento per l’assenza di una parte di noi senza la quale non siamo noi.

Ma Gesù, che non ha mai considerato Tommaso perduto, proprio nel Cenacolo viene a cercarlo; torna dopo una settimana, come torna ogni giorno nel quale la Chiesa fa memoria del suo Mistero Pasquale. Torna per lui, assecondando con tenerezza infinita quel bisogno affettivo che, sempre, muove gli uomini verso di Lui. Il vuoto di una vita fallimentare, un matrimonio che sta andando a rotoli, una malattia, l’incompiutezza della vita sono i pertugi attraverso i quali Dio lascia che la storia scavi nella roccia dura dell’orgoglio. Da essi parte il cammino di ritorno, la conversione. 

Anche noi, spesso, dimentichiamo che l’unico luogo dove ricevere la virtù soprannaturale della fede, dove toccare e vedere Cristo risorto, dove sperimentare il suo amore più forte della morte, è la Chiesa, la comunità cristiana. Perché un cristiano è un gemello nel cui cuore risuona sempre l’eco della presenza del proprio fratello, anch’egli a sua volta gemello di Cristo, come ciascuno di noi. Per questo le sue ferite sono le nostre, e la fede non si ferma ad un evento registrato dai sensi, ma va al di là, alla presenza misteriosa eppure concreta e reale, della sua vittoria sulla morte, della sua vita dentro la nostra vita. 

Nella comunità dove solo possiamo “nascere da Dio”, che significa appunto “credere che Gesù è il Cristo”, sperimentare nella propria vita che Lui è il Salvatore, l’Unto di Dio, il Signore. Gesù, infatti, non dice che la fede è un salto nel buio. Altrimenti, perché avrebbe fondato la Chiesa? Essa è, nel mondo, proprio il suo corpo risorto offerto come segno perché il mondo possa credere.

Dall’amore tra i fratelli ogni uomo potrà riconoscere che Dio esiste, che ha mandato il suo Figlio non per condannarlo, ma per salvarlo. L’amore che perdona e si fa carico dei pesi e dei peccati dei fratelli, perché “chi ama Colui che ha generato, ama anche chi da Lui è stato generato”.

Nella Chiesa i fratelli “vincono il mondo con la loro fede” che si appoggia ogni istante alla vittoria di Cristo sulla morte: la fede che si esprime in gesti e segni concreti che rendono visibile la vita eterna che ha preso dimora in loro, in virtù della quale i rinati nel Battesimo hanno un “cuore solo e un’anima sola” essendo parte del Corpo vivo di Cristo risorto.

Nella comunità cristiana “nessuno dice sua proprietà ciò che gli appartiene, ma ogni cosa è in comune” tra i fratelli; “in comune” che significa “nella comunione” celeste che può vivere solo chi è “nato da Dio” e ama nella libertà il suo fratello. L’amore, infatti, è il compimento di ogni “comandamento di Dio”. No, non si tratta dei bei tempi andati, ma del primissimo modello apostolico che la freschezza del Vangelo rinnova in ogni generazione.

Non viviamo così nelle nostre comunità? Vuol dire che, come Tommaso siamo ancora alla ricerca di Gesù, che non abbiamo toccato le sue piaghe gloriose, che cioè ancora non abbiamo sperimentato sino in fondo il potere rigenerante del suo perdono. Che, anche se battezzati, non ci siamo ancora lasciati trasformare dall’acqua e dal sangue, dalla Grazia del sacramento. Siamo ancora sordi alla testimonianza dello Spirito, alla Verità, perché, come Tommaso, abbiamo vagato lontani dal Cenacolo dove Gesù lo ha effuso sugli apostoli e sugli altri fratelli. E chi non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene…

Ma il Signore ama Tommaso, e ama noi. E ci attende con pazienza, e viene a cercarci ancora. Anche i momenti in cui ci siamo allontanati e abbiamo preferito la solitudine dell’orgoglio o del dolore, anche quelli infilati nel buio più oscuro, sono fecondi e preparano all’incontro decisivo che muove alla professione di fede più bella.

Anche noi, anche tuo figlio e il tuo amico, anche l’uomo più lontano sta cercando il Signore! E può tornare come Tommaso attirato dall’annuncio dei suoi fra
telli, perché sempre la predicazione si pianta nel cuore delle persone come un santo tarlo. Prima o poi darà frutto.

Tommaso in fondo, anche se balbettando e ponendo condizioni, ha prestato un po’ di fede alle parole dei suoi fratelli, e ora è lì, nella sua comunità. E tanto basta, e questo è tutto. Perché Gesù torna sempre dai suoi, e cerca Tommaso, e accetta ogni sua condizione!

Gesù accoglie anche le nostre, anche quelle di ogni uomo, dei più piccoli e deboli, dei più grandi peccatori, e si fa carne, storia, vita dentro le nostre ore, e schiude le sue ferite, la sua misericordia, perché tutti le possiamo toccare.

Gesù ha pazienza e, come un fratello maggiore, ci prende per mano e, nella Chiesa Madre e Maestra, ci insegna a camminare con la Parola e i Sacramenti, per “diventare”, passo dopo passo nel catecumenato di conversione, “un credente”, uno che, in ogni circostanza, vive appoggiato al suo amore incorruttibile.

E’ necessaria la scintilla che solo l’amore di Dio rivelato in Cristo e sigillato dallo Spirito Santo può far scoccare nell’anima: allora, come San Paolo, la “conoscenza” di Cristo non sarà più secondo la carne, necessaria all’inizio, come fu necessaria la notte di Betlemme per dare inizio, con l’incarnazione, al Mistero di Pasqua di Gesù.

Per resistere al pericolo che anche la fede divenga uno struggente ricordo, occorre lasciarsi crocifiggere con Cristo, per restare ben piantati con Lui nella storia, e vivere, pur non “sentendo” nulla, anche senza consolazioni, appoggiati al mistero del suo amore, spesso invisibile ma sempre all’opera.

Quando l’altro ci offre la morte, quando la storia si apre come un abisso di delusione e solitudine, ci salva la comunità, il cenacolo dove toccare Cristo e imparare la fede. In essa possiamo allineare i memoriali del suo amore con noi su cui costruire, come sulla roccia, la nostra casa, capace di resistere alle tempeste e ai terremoti.

Così potremo giungere alla fede adulta, la fede di Tommaso cresciuta nella sua comunità, alla presenza di Cristo risorto. E, come Lui, potremo riconoscere “il nostro Signore e il nostro Dio” nelle nostre stesse piaghe, nelle ferite della nostra vita: nella Croce la gloria, nella storia l’onnipotenza di Dio, nella nostra vita la signoria di Cristo a cui “rendere testimonianza con parresia”, il martirio che tanti fratelli stanno offrendo a Cristo in ogni angolo del mondo.

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Antonello Iapicca

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