Di lui si è parlato molto qualche anno fa, in relazione alle sue prese di posizione – da segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i migranti e gli itineranti - sul tema dell’immigrazione. Erano esternazioni che erano state accolte in genere dalla forte disapprovazione del centro-destra, ma anche dalle insistite puntualizzazioni della Segreteria di Stato del tempo: “Sono opinioni personali”. Dimissionò alla scadenza del suo 70° compleanno, il 28 agosto 2010. Ma di monsignor Agostino Marchetto si è sentito parlare anche dopo, in particolare per la pubblicazione nel 2012 del volume sulla corretta ermeneutica del Concilio ecumenico vaticano II e nel 2013 di “Primato pontificio ed episcopato”, presentato in Campidoglio.

In tale occasione veniva resa nota una lettera in cui papa Francesco definiva l’autore come “miglior ermeneuta del Concilio Vaticano II”. Pensionato sì, ma sempre attentissimo anche all’attualità vaticana e internazionale, monsignor Marchetto (che è stato nunzio apostolico in Madagascar, Tanzania, Bielorussia) ci ha rilasciato volentieri l’ampia intervista che segue, in cui si sono evidenziati soprattutto tre argomenti: la riforma della Curia per un suo aspetto particolare, la drammatica situazione in Ucraina e quella altrettanto drammatica sulla sponda sud del Mediterraneo.

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Mons. Marchetto, da ormai quattro anni e mezzo è in pensione… che sta facendo?

(ride) La mia è una pensione… lavorativa. Pensavo di andare in pensione a 70 anni, come è possibile ai nunzi apostolici, anche per dedicarmi con maggiore intensità al Concilio ecumenico  vaticano II. Se non fossi andato in pensione, l’ultimo volume sulla corretta ermeneutica del Concilio non sarebbe potuto apparire facilmente. Ora sto preparando una bella sorpresa per fine d’anno…

Lei è stato quasi dieci anni segretario del Pontificio Consiglio per la Pastorale dei migranti e degli itineranti, ha un buon ricordo di quell’esperienza?

È stata un’esperienza molto gratificante che ho concluso produttivamente con un libro-intervista dal titolo “Chiesa e migranti. La mia battaglia per una sola famiglia umana”.

Lei sa che nella prevista riforma della Curia romana il ‘suo’ Pontificio Consiglio rischia di essere inglobato in una sorta di Congregazione-contenitore di ciò che riguarda Giustizia, Pace, Carità…?

Penso proprio che, procedendo in tal modo, il Pontificio Consiglio perderebbe la sua specificità. È il caso di rilevare che, se così succedesse, sarebbe sepolto un secolo di pastorale propria della mobilità umana, raccolta nelle sue molteplici espressioni. Una delle migliori intuizioni del Concilio, in risposta ai segni dei tempi, rischierebbe gravemente di essere messa a repentaglio e vanificata. In effetti non si conserverebbe con chiarezza la scelta ecclesiale di una pastorale particolarmente adatta al mondo di oggi, caratterizzato dalla mobilità e dalla globalizzazione, che si esprime in genere per i migranti in accordi tra conferenze episcopali nazionali o tra vescovi di vari Paesi. La promozione e la difesa dei diritti dei migranti, ad esempio, sono certamente parte di tale pastorale, che non si riduce però alla dottrina sociale della Chiesa.

Che cosa propone allora, considerato che qualcosa dovrà cambiare nella struttura dei Pontifici Consigli?

Riandiamo alle origini. Nella sua forma originaria il Pontificio Consiglio della Pastorale per i migranti e gli itineranti era posto nell’ambito delle competenze della Congregazione per i vescovi. Perciò, se si dovesse decidere di sopprimerlo togliendogli l’autonomia necessaria, mi permetto umilmente di suggerire che il Pontificio Consiglio ritorni a casa dalla Congregazione per i vescovi…

Perché legarsi a tale Congregazione?

Perché siamo nell’ambito della pastorale propria di ogni vescovo. Nella riforma della Curia non si può ignorare la storia. Di cui noi non siamo schiavi, ma neppure dobbiamo negligere, perché la storia ci dice pur qualcosa dello sviluppo curiale degli organismi di servizio della Chiesa.

Quasi quattro anni fa Lei ci diceva a proposito di ‘corridoi umanitari’ per i migranti: “Bisogna crearli in Libia. Lì ci sono i rifugiati e forse anche alcuni che abbiamo respinto. Si tratta di rendere operativa la creazione di zone in cui confluiscano coloro che hanno il diritto d’asilo; l’organizzazione dovrebbe essere degli Stati che sono coinvolti nell’intervento militare in Libia, in collaborazione con gli organismi preposti dalle Nazioni Unite. I rifugiati dovrebbero poi essere trasportati in luoghi sicuri senza dover affrontare per la realizzazione di un loro diritto il Mare monstrum che ha già inghiottito migliaia di vite umane”. Caro mons. Marchetto, siamo ancora lì. Anzi la situazione è peggiorata…

A quel tempo la mia grande battaglia umana e cristiana era contro i respingimenti in Libia, verso un Paese che aveva dei campi di accoglienza in cui si sopravviveva a stento. Rispetto a quattro anni fa è cambiato il governo italiano, non c’è più agli interni un politico della Lega Nord… poi è cambiato il Papa: non c’è dubbio che papa Francesco il primo segno fuori Roma l’ha dato andando a Lampedusa. In Segreteria di Stato non ci sono più le stesse persone, quelle che erano abilitate a pronunciarsi su questa realtà tragiche, le stesse che puntualizzavano – se mi è permesso dirlo con molta serenità – che le mie opinioni in materia erano del tutto personali, quando invece esprimevo pienamente la dottrina sociale della Chiesa, la legislazione internazionale, il non abbandono in mare secondo le regole fondamentali. Dal punto di vista degli uomini chiamati a decidere si può allora forse dire che c’è stato un miglioramento. Però è vero che, se compariamo la situazione del 2011 a quella odierna, si è verificato un netto peggioramento. Se a quel tempo la Libia poteva forse ancora dare una possibilità di creazione in loco di ‘canali umanitari’, oggi l’idea è molto più condivisa, ma anche molto difficilmente realizzabile. Come si può pensare che le organizzazioni internazionali vadano adesso in una Libia in preda al caos a organizzare i ‘corridoi’?

Da dove trae origine il caos in Libia? Da più parti si evidenzia che Gheddafi era certo un dittatore, ma almeno garantiva una certa stabilità al Paese…

Lei tocca un punto delicatissimo, ben conosciuto dai nunzi apostolici e dagli ambasciatori, che risiedono in Paesi difficili, dittatoriali, polizieschi, con una situazione precaria dal punto di vista dei diritti di libertà: e tuttavia la situazione in tali Paesi è forse un male minore rispetto a quella di Paesi di cui in un primo momento si era lodata la ‘primavera’.  Abbiamo visto a che cosa hanno condotto le ‘primavere arabe’… Eppure in certi ambienti occidentali si continua a pensare a soluzioni di intervento armato, senza preoccuparsi di quello che succederà dopo…Purtroppo questa è la situazione che ci troviamo a vivere.

Quindi la guerra…

... la guerra non è uno strumento accettabile di risoluzione dei conflitti. La Chiesa ha sempre puntato sul dialogo, fino al massimo possibile. E solo nel caso di ‘extrema ratio’ la Chiesa può registrare la possibilità di un intervento, sempre in ogni caso a certe condizioni e sotto l’egida delle Nazioni Unite. Sappiamo che nel mondo saranno in corso una trentina di guerre grandi e piccole mentre stiamo parlando. Il Papa ha accennato più volte a una sorta di “Terza guerra mondiale” combattuta a pezzi. La novità per il nostro continente è che recentemente Hollande, a proposito della crisi ucraina, ha rotto un tabù, prospettando il rischio di una guerra europea. Non succedeva dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.

A proposito di Ucraina, come si è giunti alla situazione odierna, così drammatica, gravida di minacce, già percorsa da quotidiani atti di guerra?  

Credo che vada evidenziato il fatto che Russia e mondo occidentale si contendono una terra che nella storia è sempre stata geopoliticamente molto sensibile. Se l’Occidente intendesse estendere addirittura la Nato fino all’Ucraina, come potrebbe la Russia accettare un tale sviluppo? Si troverebbe con un potenziale nemico alle porte di casa, anzi dentro casa se si considera che per i russi l’Ucraina è patrimonio della loro grande storia e cultura. L’Occidente da parte sua non vede di buon occhio il possibile ristabilimento di una leadership russa su una larga fascia di territorio oggi popolato da diversi Stati indipendenti.

Soprattutto negli Stati Uniti varie voci, anche importanti, hanno chiesto l’invio di armi a Kiev...

Se l’Occidente inviasse armi presumo strategiche, sofisticate, non si potrebbe poi pretendere l’inazione da parte della Russia. Si accrescerebbe il rischio di passare da una situazione già drammatica a una ancora peggiore, che potrebbe coinvolgere seriamente l’intero continente. Si vuole mettere a repentaglio la pace?

Lei dal 1994 al 1996 è stato il primo nunzio apostolico residente in Bielorussia, a Minsk. Quella Minsk in cui si è tenuto anche l’ultimo vertice tra Russia, Ucraina, Germania e Francia per cercare di giungere almeno a una tregua…

Ricordo con particolare affetto la Bielorussia, che si è prestata come sede anche dell’ultimo vertice sulla situazione ucraina. Come Lei sa, le discussioni sono state intense, si sono protratte tutta la notte pur di addivenire a un accordo, anche minimo. I partecipanti erano certo coscienti che, in presenza del fallimento di una trattativa decisiva, incombeva minaccioso e concreto il rischio della guerra. Comprendo la difficoltà di trovare una via d’uscita praticabile, quando gli interessi geopolitici sono fortissimi e ognuno ne fa un punto fondamentale della sua strategia…

Nell’intervista già citata di quasi quattro anni fa lei osservò: “Ho sempre ringraziato il Signore per non essere un politico”. Tornando alla situazione mediterranea, allora le chiedo: Immagini per un attimo di essere un politico e mi dica che cosa farebbe oggi per prima cosa nel tentativo di mitigare i venti di guerra.

Condividerei l’idea di cercare in tutti i modi di giungere a un accordo tra i diversi contendenti in Libia: bisogna allestire un tavolo comune in vista del bene comune nazionale. Naturalmente ciò potrebbe concretizzarsi solo in presenza di una precisa volontà di mantenere unita la Libia come Stato indipendente.

E a medio termine a che cosa punterebbe?

A un’alleanza solida tra Europa e Africa. Sarebbe un’alleanza pensata anche per giungere a una soluzione soddisfacente riguardo al fenomeno migratorio.

E’ un fenomeno in ogni caso di tali dimensioni e complessità da richiedere per la sua trattazione l’aiuto di tutti. Sull’argomento però le divergenze sono profonde, anche perché coniugare accoglienza dignitosa e sicurezza si rivela di una difficoltà estrema…

Per gli Stati che hanno firmato le Convenzioni internazionali sull’argomento riconoscere agli immigrati i diritti umani fondamentali è un dovere. Lo so che ci sono politici un po’ in tutta Europa che abdicano anche alla funzione pedagogica che è loro propria e, invece di educare il loro elettorato, si fanno portavoce delle sue paure e dei suoi egoismi, tuonando ciecamente contro il diritto dei popoli, contro la dignità delle persone, contro le Convenzioni internazionali. Ritengono così di avere il posto assicurato in Parlamento. Come può essere ad esempio, per quanto riguarda l’Italia, che Lombardia e Veneto rifiutino (uniche regioni della Penisola) di accogliere ancora rifugiati? Perché vogliono chiudersi egoisticamente nel loro piccolo mondo? E’ vero che si fatica a far capire il dovere di rispettare i diritti di tutti. Mi chiedo: ma se ci fosse una guerra come faremmo a far rispettare i diritti umani, se in tempi di pace diventa già così difficile farli accettare?

[Fonte: Rosso Porpora