“Toglierci ogni maschera”, “uscire allo scoperto” e avere il “coraggio” di una vita autenticamente cristiana. Se nella mattinata di ieri padre Bruno Secondin invitava a seguire il comando del Signore ad Elia a “stare di lato” e far agire Lui, nella meditazione pomeridiana - la seconda degli Esercizi Spirituali quaresimali in corso ad Ariccia per il Papa e la Curia -, chiama invece ad un’azione diretta per riprendere con sincerità in mano la propria storia e riscoprire la “verità più profonda di noi stessi”.
Il carmelitano segue ancora il cammino del profeta, come narrato dalle Scritture. Ma lo fa per scene, personaggi, suggestioni, per rimandi e provocazioni, senza seguire alcun ordine né il filo logico dei brani del Primo Libro dei Re. Tuttavia, il predicatore utilizza il XVIII capitolo come base per la sua riflessione, che ritrae il popolo d’Israele e il re Acab sfiancati da una lunga carestia provocata dal culto idolatrico a Baal.
Elia, che su ordine del Signore viveva in solitudine, è invece ora chiamato da Dio a rompere questa “clandestinità” e presentarsi ad Acab per riportarlo sulla retta via. Un invito quindi a “uscire allo scoperto” e liberarsi dalle “ambiguità” dietro alle quale spesso i cristiani si nascondono. Spesso – ha osservato Secondin – anche noi viviamo infatti in ‘clandestinità’, mascherati da una religiosità solo esteriore, priva del coraggio della verità.
“Va’ a presentarti ad Acab” dice Dio ad Elia: lui che voleva sparire, ora deve andare incontro al rischio di trovarsi faccia a faccia con quel re che lo considera un nemico. Non è anche questo un chiaro riferimento alla nostra vita? A tutti quelli, cioè che nella Chiesa fanno sempre i loro calcoli, rimandano continuamente e “si tirano indietro”, ha rimarcato padre Bruno.
Sono queste “vittime delle parole e delle diplomazie”, ha detto; quando invece Dio prospetta al cristiano sempre “nuove avventure”, alle quali “non ci si può sottrarre con la scusa delle minacce di un Acab di turno”, né perché condizionati dai pregiudizi o dalle convenienze delle “amicizie e delle cordate”.
“Uscire allo scoperto”, allora. Insieme ad Elia, lo stesso invito è rivolto ad Abdia, ‘maggiordomo’ del re Acab inviato dal sovrano proprio per contattare il profeta. Anche questo personaggio dice qualcosa: Abdia – ha evidenziato Secondin – vive di fatto sdoppiato tra la sua appartenenza “a una tradizione diversa” e il desiderio di non rinunciare “ai vantaggi del potere”. Come tanti oggi, è quindi spinto interiormente a difendere la verità, ma impaurito al punto da non voler osare per non perdere le sue sicurezze.
A lui e al popolo, Elia rivolge pertanto un forte richiamo: “Fino a quando salterete da una parte all’altra?”. In altre parole, ha osservato padre Secondin, il profeta dice loro: “Finitela con questa sceneggiata!”. Il problema è che il popolo alle intimazioni del profeta non risponde neppure, tace, perché “il sistema ha ucciso la sua coscienza”.
Anche questo un rimando alla realtà attuale: “Quante volte – ha esclamato il carmelitano - ancora adesso, i regimi, i sistemi dissanguano i popoli”. E quante volte guardiamo come “spettatori impauriti” guerre fatte per procura o - nell’ambito della vita religiosa - restiamo incantati davanti ad “apparati elefantiaci, mega cattedrali, mega complessi”, dimenticando invece poveri e ultimi.
Questo popolo annichilito ha bisogno allora di uno scossone. Ecco allora che Elia lo mette davanti ad una prova di fuoco: il confronto tra la presunta potenza di Baal e quella del Signore d’Israele. E il popolo rimane affascinato da questa “religiosità spettacolare”. Un po’ come accade oggi quando la fede “viene misurata con le statistiche” e si risolve in “manifestazioni in cui non si sa se si è di fronte a happening o a fede vera”.
L’aspetto più importante di questo brano è invece il gesto del profeta che “si avvicina al popolo per coinvolgerlo”, ha rilevato padre Secondin. E proprio su questo punto si è soffermato per la sua meditazione di questa mattina, martedì 24 febbraio. Il predicatore è partito infatti da una domanda: “Abbiamo il coraggio di coinvolgere il popolo, o facciamo il giro delle sette chiese prima di interpellarlo? Trattiamo le cose importanti tra pochi intimi o sappiamo avere una strategia di visibilità che spiazza il sistema?”.
L’esperienza insegna che “certi temi sensibili” hanno provocato solo grandi “sofferenze”, ha annotato padre Bruno, esortando invece a “non nascondere i nostri scandali”, perché è importante che “le vittime dell’ingiustizia siano portate a guarigione con la nostra umiltà di riconoscere gli errori”. Anche questo è un modo per “tirare giù la maschera” ed “uscire allo scoperto”.
Il riconoscimento delle colpe nella Chiesa, tuttavia, deve essere misurato. Spesso la Chiesa, nel corso dei secoli, è stata capace di atti violenti: come Elia che – ha ricordato il predicatore - fece giustiziare terribilmente i profeti di Baal, “anche noi abbiamo bruciato persone, abbiamo ammazzato”. E continuiamo a farlo ancora oggi, certo “senza la spada”, ma utilizzando altre forme come la lingua o “la tastiera” di un computer che “uccide più della spada!”.
Proseguendo il filone della meditazione di ieri, padre Secondin ha quindi ribadito l’incoraggiamento ad avere il coraggio di uscire fuori e dirsi la verità su se stessi, senza anestetizzare la coscienza. A tutto ciò aggiunge un altro passo da compiere per avvicinarsi sempre più alla conversione: incamminarsi su “sentieri di libertà”, magari eliminando tutti quegli atteggiamenti che ci fanno “oscillare da una parte all’altra”.
Uno è proprio quel culto “chiassoso, superstizioso” che ancora adesso si incontra e che ricorda la ritualità violenta, “scenografica”, con cui il popolo d’Israele invocava Baal, che Elia sbeffeggia perché “non edifica la vera fede”. Poi tutta la serie di “idoli”: “Orgoglio, ambizione, cultura, carriera...”.
Tutto ciò rende instabili – ha rimarcato padre Bruno -, quando invece “non possiamo dubitare della misericordia di Dio che tutto prosciuga, tutto trasforma”. Elia, infatti, ricostruisce un altare con le dodici pietre che ricordano le dodici tribù d’Israele proprio perché vuole “richiamare tutti a un’identità”. E come il profeta anche noi dobbiamo “prendere per mano il risveglio della coscienza della gente”, magari utilizzando strategie intelligenti.
Prima di farlo, però, meglio fermarsi un attimo e porsi qualche domanda. Ad esempio, ha suggerito Secondin: “Il nostro cuore appartiene realmente al Signore” o ci accontentiamo di atteggiamenti esteriori? “La nostra preghiera è audace e invoca il bene del popolo? È cadenzata da un senso ecclesiale?”. O ancora: “Sentiamo l’urgenza di vivere esperienze forti, straordinarie, che lasciano il segno, o ci accontentiamo?”.
[Fonte: L'Osservatore Romano]