In Missione dove nel passato c'erano i tagliatori di teste

Nell’anno della Vita consacrata, il padre passionista Gabriele Ranocchiario racconta 25 anni di missione

Share this Entry

Padre Gabriele Ranocchiario è un sacerdote passionista settanquatrenne, missionario per 25 anni nelle foreste del Borneo occidentale a Kalimantan Barat in Indonesia.

L’identità passionista è avere nel cuore la memoria dell’amore misericordioso di Dio Padre, rivelato nei misteri della vita, passione, morte e risurrezione di Gesù.

Ma perché questa impressione nel cuore avvenga e dia frutti si deve essere uomini di orazione che genera un dialogo continuo con Cristo Crocifisso e risorto vivente nell’Eucaristia.

Il Papa Benedetto XV in occasione del secondo centenario della fondazione della congregazione (1720-1920) ha ricordato con gratitudine l’esempio di Gabriele dell’Addolorata. “Sappiamo, – disse – che Gabriele dell’Addolorata non per altra via che per quella della disciplina regolare è arrivato al sommo della santità.”

Nel contesto dell’anno dedicato alla Vita Consacrata, ZENIT ha intervistato padre Gabriele Ranocchiario.

***

Quando e come ha sentito la vocazione missionaria?

Avevo 11 anni, quando  nel mio paese, vennero due sacerdoti passionisti a incontrare mio fratello maggiore, Tonino, che aveva espresso il desiderio di voler diventare sacerdote.

Mio fratello in realtà decise di non andare e disse: “No, non vengo!”. Nell’assistere a quella scena cominciai a maturare nel mio intimo un ardente desiderio di intraprendere quel percorso tanto da dir loro: ”Vengo io!”. Avevo solo 11 anni, ma già ero affascinato da San Gabriele.

Con il passare del tempo quella che poteva sembrare una risposta frettolosa agli occhi degli altri si rafforzò e consolidò. Infatti, dopo soli due anni da quell’avvenimento, all’età di tredici anni, partii per il Seminario dei Passionisti. Abitavo vicino al Santuario di San Gabriele dell’Addolorata vicino a Teramo.

Trascorsi tre anni dall’ordinazione sacerdotale, sentii il desiderio di voler fare di più come sacerdote. Ne parlai con il mio direttore, il quale mi suggerì di andare in missione. Era il 1966.

Il 10 giugno 1970 partii per il Borneo Occidentale: da Giacarta a Pontiniak e da Pontiniak, dopo sette giorni di attesa, con una nave di commercianti, risalimmo il fiume Kapuas per 400 km e arrivammo a Sekadau, centro della nostra missione.

Quale fu la sua destinazione e perché?

La situazione in quei luoghi si era complicata. A causa di contrasti tra il governo Indonesiano e lo Stato olandese, i Passionisti olandesi che lavoravano dal 1942 nel Borneo occidentale, avrebbero dovuto lasciare l’Indonesia. Per fronteggiare questa situazione il Padre Generale di allora fece un appello ai Passionisti delle altre nazioni invitandoli a sostituire i padri olandesi nella missione del Borneo.

Il gruppo passionista della Provincia religiosa detta della “Pietà”, di cui faccio parte, rispose all’appello. Fu così che nel 1961 partirono i nostri primi missionari. Risoltosi il conflitto tra Indonesia e Olanda, gli operai del Signore crebbero perché anche i missionari olandesi poterono fermarsi in Indonesia e fu un bene data la vastità del territorio della missione!

Perché una vita missionaria?

Durante gli anni di preparazione al sacerdozio, oltre a consacrarmi personalmente al Signore, mi piaceva aiutare la gente a conoscere Gesù. La Missione mi poteva dare questa grande gioia. Partii per la missione proprio per far conoscere Gesù, il Suo Grande Amore, il  Suo coraggio di morire sulla croce per noi tutti e liberarci dal peccato e dagli spiriti cattivi. Il missionario è colui che afferrato dall’Amore di Gesù parte per continuare la Sua missione: annunciare la Misericordia del Padre che nel Sangue del suo Figlio Gesù libera tutta l’Umanità e ne fa la sua famiglia in Terra, dove tutti ci dobbiamo ritrovare e amare come fratelli e sorelle dell’Unico Dio: Padre, Figlio e Spirito Santo…un Dio Grande nell’Amore e di una Misericordia Infinita, “non c’è istante che non appartenga a DIO e al Suo Amore sconfinato per le anime…”

Come svolgeva la sua attività? Non deve essere stato semplice almeno nelle fasi iniziali?

Il territorio missionario era diviso in parrocchie molto vaste.  Pensi che avevamo parrocchie che comprendevano fino a 150 villaggi sparsi nella foresta. Insieme alla vastità del territorio si aggiungeva la molteplicità religiosa, c’erano musulmani e protestanti.

La prima tribù in cui lavorammo, fu la tribù Dayak, ex tagliatori di teste.

Dopo alcuni mesi trascorsi nel centro della missione per lo studio della lingua indonesiana, fui mandato nella parrocchia di Lintang Kapuas. Il Kapuas è un grande fiume del Borneo occidentale a 400 km dal mare, largo 800 metri che durante le piene arriva ad una profondità di 25 metri.

Il nostro operare portò i primi frutti, infatti riuscimmo ad aprire le parrocchie le scuole elementari e in alcune parti anche le scuole medie a Sekadau anche le magistrali. In queste terre il Missionario è chiamato a visitare, a piedi o via fiume con tutti i rischi e pericoli del caso, i villaggi cristiani e non cristiani, ma desiderosi di ascoltare. Non c’è il telefono, i cristiani e gli abitanti dei villaggi, venivano avvisati con una lettera affidata ai viandanti.

Il viaggio del missionario poteva durare da pochi giorni a una ventina e più giorni. Il mio viaggio più lungo è durato 32 giorni. Arrivato nel villaggio venivo ospitato dalla famiglia Pemimpin, colui che guidava la comunità o da un’altra famiglia che aveva spazio per una stuoia dove dormire. Le loro case sono case costruite su palafitte con pavimento fatto da canne di bambu’ o tronchi, pareti con corteccia d’albero e per tetto la paglia. Le migliori case, ancora rare, erano fatte con tavole nel pavimento, alle pareti, e tegole di legno.

La sera dopo la cena si riuniva la comunità: tenevo l’istruzione sul Vangelo. Poi mentre la comunità pregava il rosario e cantava, svolgevo il servizio delle confessioni.

Dopo la preghiera ci trattenevamo in allegra compagnia, tra l’altro con balli e canti fino a verso l’una di notte.

La presenza del missionario era una festa per i cristiani.

Il mattino seguente ci si riuniva di nuovo per prepararsi alla celebrazione della santa messa: si terminava il servizio delle confessioni, si registrava i battesimi da fare ed altri sacramenti da amministrare. La preghiera terminava con la celebrazione della santa messa.

Dopo il pranzo venivo accompagnato per arrivare in un altro villaggio.

Dopo alcuni anni che avevo servito la parrocchia di Lintang Kapuas fui trasferito in quella di Pakit. Fu un distacco doloroso. A Pakit dovevo ricominciare da zero.

Entrai in cappella per lamentarmi un pò con Gesù Eucarestia. Mi sentii una voce nel cuore che mi diceva: “Là ci sono anch’Io: questa gente di Lintang la conosci e la ami, ora vai a Pakit, per conoscere altre persone ed amare anche loro”.

Così partii seranemente pur sapendo di andare in un posto dove non conoscevo nessuno. Anche la parrocchia di Pakit è molto vasta. I villaggi più lontani erano a tre giorni di cammino. Restai 5 anni in quella parrocchia.

La parrocchia di Pakit confina con la diocesi di Sintang. Alcuni villaggi di questa diocesi, confinanti con quelli della mia parrocchia, vedendo che il loro missionario, raramente li visitava, perché lontani dal centro della loro parrocchia, ripetutamente mi hanno invitato a far loro una visita per fare la confessione e ricevere l’eucaristia.

Dopo aver chiesto i dovuti permessi al loro parroco visitai 5 villaggi. Nel far ritorno al mio territorio incontrammo un villaggio a me sconosciuto, Sebelantau. Ancora nessun missionario vi era arrivato. Con quelli che mi accompagnavano ci recammo dal capo villaggio e chiedemmo di poter incontrare il popolo la sera. Acconsentì. Mentre aspettavo la sera, feci due passi nel villaggio e scoprii alcune capanne dove vi onoravano il loro idoli, i Pentik.

La sera, su inv
ito del capo villaggio, tutti si riunirono.

La prima parte del mio dialogo con loro fu quello di conoscere il loro credo. Così scoprii che credevano ad un essere supremo, buono, chiamato Peta’ra, ma raramente si rivolgevano direttamente a lui, per arrivare a lui essi si affidavano ai Pentik, cioè divinità inferiori che facevano da tramite tra l’uomo e il Peta’ra.

Avevano tanti altri riti, per allontanare gli spiriti cattivi che temevano tanto, pensavano di tenerli buoni offrendo loro offerte di carne ed altri cibi.

In un secondo tempo, cominciai a rivelare loro la fede cristiana: parlai del nostro Dio che chiamiamo Padre, del mediatore tra noi e il Padre, che è Gesu’ Cristo, figlio di Dio Padre inviato dal Padre a noi, morto sulla croce per Amore e per distruggere il male che si trova nel nostro cuore e per far diventare anche noi figli di questo Padre che ci ama immensamente.

Al termine della riunione il capo villaggio disse al popolo: “questa sera siete stati tutti ad ascoltare il missionario, quando lui ritornerà a farci visita chi desidera verrà ad ascoltarlo”. Da questo incontro è cominciata la fede nei cuori degli abitanti di Sebelantau.

Per tre anni, quando arrivavo nella zona visitavo questa comunità, ma personalmente non vi battezzai nessuno, ancora davo istruzioni sulla fede e sullo stile di vita cristiana. Successivamente chi mi sostituì come parroco continuò a visitarli, vi fu eretta una chiesa e si sviluppò una bella comunità di cristiani.

Quando è rientrata in Italia?

Nel 1995 dopo 25 anni di missione in Indonesia, ho fatto ritorno in Italia. Da allora la maggior parte del tempo l’ho passato al santuario di San Gabriele dell’Addolarata prima come confessore, e poi come responsabile dei religiosi passionisti malati o anziani.

Ho 74 anni e da dieci anni lavoro con gli anziani. In questo tempo ho conosciuto diverse rivelazioni private che il Signore fa ai suoi eletti. Scopro in queste rivelazioni, con meraviglia, il Grande Desiderio di Gesù che ama tanto gli uomini e li vuole salvare a tutti i costi.

Ho conosciuto anche la signora Justine Klotz, una mistica tedesca morta nel 1984, a cui il Signore ha dettato l’Atto d’Amore, una brevissima preghiera molto bella per chiedere la salvezza dei sacerdoti e di tutti gli altri.

In me resta ancora vivo lo spirito missionario di un tempo: “vorrei aiutare tutti a vivere in comunione con il Padre attraverso Gesu’ appassionato nello Spirito Santo“. Attualmente offro al Signore, per questo scopo, il mio servizio ai malati, vedrò se posso tenere centri di ascolto della Parola di Dio e orare insieme alla gente attraverso gruppi di preghiera.

In ogni preghiera – anche in ogni nostro fare – dev’essere sempre vigile e rinnovata la nostra buona intenzione di pregare e di fare il bene, (naturalmente anche il nostro dovere quotidiano), per tutte le anime e per conto di tutte le anime.

Share this Entry

Anna Lambi

Sostieni ZENIT

Se questo articolo ti è piaciuto puoi aiutare ZENIT a crescere con una donazione