«Molte donne si chiedono: metter al mondo un figlio, perché? Perché abbia fame, perché abbia freddo, perché venga tradito ed offeso, perché muoia ammazzato alla guerra o da una malattia? E negano la speranza che la sua fame sia saziata, che il suo freddo sia scaldato, che la fedeltà e il rispetto gli siano amici, che viva a lungo per tentar di cancellare le malattie e la guerra».
Guardava lontano, Oriana Fallaci. Tanto da arrivare a leggere con largo anticipo quel che accade ai giorni nostri, nell’Italia delle culle vuote. Lo ha certificato l’Istituto nazionale di statistica. Secondo i dati Istat, infatti, il 2014 si è caratterizzato come un anno nero per la natalità. Sono stati solo 509.000 i nati, 5.000 in meno rispetto al 2013, il minimo dal 1861. Il numero medio di figli per donna è stato pari a 1,39, come nel 2013. L’età media al parto è salita a 31,5 anni. E il calo delle nascite ha riguardato anche le madri straniere, residenti da tempo nel nostro Paese e scese, per la prima volta, sotto la soglia dei due figli a testa.
Non v’è dubbio che su questa situazione abbiano pesato la stagnazione economica e la disoccupazione, specialmente dei più giovani, che ha raggiunto anch’essa livelli record, con circa 6,3 milioni di persone senza lavoro. La crisi economica mette a dura prova le famiglie italiane, scoraggia i giovani che vorrebbero mettere su famiglia e le coppie che aspirano ad avere figli.
Se ne ricava l’esistenza di un quadro desolante, in cui non v’è posto per la maternità e la paternità. Manca l’attenzione verso la famiglia tradizionale come soggetto di riferimento. Gli interventi si concentrano sui bisogni individuali di bambini, anziani, donne, disoccupati. E niente, in effetti, sembra andare incontro alle esigenze di chi voglia avere figli. Del resto, ciò che appare caratterizzare l’approccio delle politiche di welfare è una sorta di oscillazione tra una centralità dichiarata, ma solo formale, della famiglia, e la sua sostanziale marginalità come soggetto delle politiche sociali.
Così, in una società sempre più distratta e delusa, che vede sempre meno sbocchi nel futuro e nella quale le persone finiscono per vivere solo per se stesse, la denatalità diventa il tarlo evidente di una mentalità che allontana gli impegni significativi: non ci si identifica più nelle responsabilità, specie in quelle familiari, e dunque in un modello positivo, bensì semplicemente nell’avere e nell’apparire, sintetizzabili in una buona carriera, e poco più.
Inevitabile, allora, che si finisca col perdere il vero senso delle cose e della vita, rinunciando alla propria missione, quella che il filosofo Bertrand Russell così descriveva: «Mettere al mondo dei figli è un’ardua impresa costruttiva, capace di dare gioie profonde. La donna che abbia saputo farlo sentirà che, quale risultato della sua fatica, il mondo si è arricchito di qualcosa di prezioso che altrimenti non avrebbe».
L’editoriale dell’arcivescovo di Catanzaro-Squillace è stato pubblicato oggi sulla “Gazzetta del Sud”.