"Cari cardinali, andate a cercare i lontani, senza pregiudizi e senza paura"

Nell’appassionata omelia con i 20 nuovi porporati, il Papa invita a seguire la logica di Cristo che “non ha paura di avere compassione” e mette in guardia dal chiudersi in una casta “che non ha nulla di ecclesiale”

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“Emarginazione, compassione e integrazione”. Si snoda intorno a queste tre parole-chiave l’omelia di Francesco, oggi, in Vaticano, durante la concelebrazione eucaristica con i cardinali creati nel Concistoro di ieri. Quasi un mandato che il Papa consegna ai nuovi porporati e che, in un certo senso, offre la giusta chiave di lettura per alcuni gesti e parole di questo pontificato che molti faticano a comprendere o accettare.

Sono tanti gli spunti offerti dal Papa, perfettamente in linea con il discorso alla Curia del dicembre scorso: reintegrare gli emarginati, mettersi al servizio dell’altro, aprirsi ai ‘lebbrosi’ del nostro tempo, anche a costo di dare scandalo. Il tutto per essere “imitatori di Cristo” e non membri di “una casta che nulla ha di autenticamente ecclesiale”.

A guidare la riflessione del Santo Padre è l’atteggiamento di Gesù nel Vangelo di oggi, che purifica il lebbroso perché “non si risparmia, anzi si lascia coinvolgere nel dolore e nel bisogno della gente”. Egli – sottolinea Bergoglio – “vuole patire con, perché ha un cuore che non si vergogna di avere compassione“.

E questo anche a costo di “prendere su di sé” l’emarginazione che la legge di Mosè imponeva, che chiedeva l’allontanamento dei lebbrosi dalla comunità perché giudicati “impuri”. “Gesù non ha paura del rischio di assumere la sofferenza dell’altro, ma ne paga fino in fondo il prezzo”, rimarca Papa Francesco. La compassione lo porta ad agire in concreto, “a reintegrare l’emarginato”, ad accogliere questa persona che “non è solo vittima della malattia, ma sente di esserne anche il colpevole, punito per i suoi peccati”.

“Immaginate quanta sofferenza e quanta vergogna doveva provare un lebbroso: fisicamente, socialmente, psicologicamente e spiritualmente! Egli è un morto vivente, ‘come uno a cui suo padre ha sputato in faccia’”, evidenzia il Pontefice. La famiglia lo allontana, la gente ha disgusto di lui, la società lo espelle e lo costringe a vivere in luoghi distanti. La legge vuole “salvare i saniproteggere i giusti”. Nessuna pietà, quindi, per il contagiato; bisognava emarginare questo “pericolo”.

Ma Cristo “rivoluziona e scuote con forza quella mentalità chiusa nella paura e autolimitata dai pregiudizi”, annota il Papa, e con il Discorso della montagna apre nuovi orizzonti per l’umanità, “rivelando pienamente la logica di Dio”. Una logica, cioè, di amore, “che non si basa sulla paura ma sulla libertà, sulla carità, sullo zelo sano e sul desiderio salvifico di Dio”.

Gesù, nuovo Mosè ha voluto guarire il lebbroso, l’ha voluto toccare, l’ha voluto reintegrare nella comunità, senza ‘autolimitarsi’ nei pregiudizi; senza adeguarsi alla mentalità dominante della gente; senza preoccuparsi affatto del contagio”, sottolinea il Santo Padre. Perché per Lui ciò che davvero conta “è raggiungere e salvare i lontani, curare le ferite dei malati, reintegrare tutti nella famiglia di Dio”.

Ma questo “scandalizza qualcuno!”. A Cristo, però, poco importa: “Egli non pensa alle persone chiuse che si scandalizzano addirittura per una guarigione”, o “di fronte a qualsiasi apertura, a qualsiasi passo che non entri nei loro schemi mentali e spirituali”. Il Messia “ha voluto integrare gli emarginati, salvare coloro che sono fuori dall’accampamento”.

Emergono dunque le “due logiche di pensiero e di fede” che si rincorrono nella storia della Chiesa sin dagli albori: “la paura di perdere i salvati e il desiderio di salvare i perduti”. E oggi ci troviamo “nell’incrocio di queste due logiche”, rileva il Papa, ovvero “quella dei dottori della legge” di emarginare quindi il pericolo allontanando la persona contagiata, e “la logica di Dio che, con la sua misericordia, abbraccia e accoglie reintegrando e trasfigurando il male in bene, la condanna in salvezza e l’esclusione in annuncio”.

Proprio quest’ultima, dal Concilio di Gerusalemme in poi, è sempre stata “la strada della Chiesa”: la strada “della misericordia e dell’integrazione”. Integrazione che non significa “sottovalutare i pericoli o fare entrare i lupi nel gregge”, precisa il Papa, “ma accogliere il figlio prodigo pentito; sanare con determinazione e coraggio le ferite del peccato; rimboccarsi le maniche e non rimanere a guardare passivamente la sofferenza del mondo”.

“La strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno” – insiste il Vescovo di Roma – ma “di effondere la misericordia di Dio a tutte le persone che la chiedono con cuore sincero”.

Tutto ciò si traduce nel sempre valido invito ad “uscire dal proprio recinto per andare a cercare i lontani nelle ‘periferie’ dell’esistenza”. Perché Gesù questo ha fatto: Egli non ha voluto “disprezzare” la Legge, ma ha “apprezzato l’uomo per il quale Dio ha ispirato la Legge”. Cristo, spiega il Papa, “libera i sani dalla tentazione del ‘fratello maggiore’, dal peso dell’invidia e della mormorazione degli ‘operai che hanno sopportato il peso della giornata e il caldo’”.

Il suo è un vero esempio di carità. Una carità che però “non può essere neutra, indifferente, tiepida o imparziale”, perché “la carità contagia, appassiona, rischia e coinvolge”. La carità vera “è sempre immeritata, incondizionata e gratuita!”. Ed è pure “creativa” perché spinge a “trovare il linguaggio giusto per comunicare con tutti coloro che vengono ritenuti inguaribili e quindi intoccabili”. “Quante guarigioni possiamo compiere e trasmettere imparando questo linguaggio!”, esclama Francesco.

Si rivolge quindi ai nuovi Cardinali, indicando loro la strada da percorrere dopo aver ricevuto la porpora: “Non solo accogliere e integrare, con coraggio evangelico, quelli che bussano alla nostra porta, ma andare a cercare, senza pregiudizi e senza paura, i lontani manifestando loro gratuitamente ciò che noi abbiamo gratuitamente ricevuto”. “La totale disponibilità nel servire gli altri è il nostro segno distintivo, è l’unico nostro titolo di onore!”, ribadisce il Successore di Pietro.

Invoca infine l’intercessione di Maria, “che ha sofferto in prima persona l’emarginazione a causa delle calunnie e dell’esilio”. Guardando a Lei e Suo Figlio, siamo dunque chiamati “a servire la Chiesa in modo tale che i cristiani – edificati dalla nostra testimonianza – non siano tentati di stare con Gesù senza voler stare con gli emarginati, isolandosi in una casta che nulla ha di autenticamente ecclesiale”.

“Vi esorto a servire Gesù crocifisso in ogni persona emarginata, per qualsiasi motivo – soggiunge Bergoglio -; a vedere il Signore in ogni persona esclusa che ha fame, che ha sete, che è nuda; il Signore che è presente anche in coloro che hanno perso la fede, o che si sono allontanati dal vivere la propria fede; il Signore che è in carcere, che è ammalato, che non ha lavoro, che è perseguitato; il Signore che è nel lebbroso – nel corpo o nell’anima -, che è discriminato!”.

Perché “non scopriamo il Signore se non accogliamo in modo autentico l’emarginato!”, avverte il Pontefice, ed è proprio “sul vangelo degli emarginati” che “si scopre e si rivela la nostra credibilità!”.

Per leggere il testo completo dell’omelia si può cliccare qui.

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Salvatore Cernuzio

Crotone, Italia Laurea triennale in Scienze della comunicazione, informazione e marketing e Laurea specialistica in Editoria e Giornalismo presso l'Università LUMSA di Roma. Radio Vaticana. Roma Sette. "Ecclesia in Urbe". Ufficio Comunicazioni sociali del Vicariato di Roma. Secondo classificato nella categoria Giovani della II edizione del Premio Giuseppe De Carli per l'informazione religiosa

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