[Leggi prima parte, con intervista a Marcello Orzalesi]
Le cure palliative, in particolare quando riguardano i bambini, non devono essere necessariamente associate a situazioni relative a pazienti “terminali” e rappresentano la vera alternativa all’eutanasia. ZENIT ne ha parlato con Franca Benini, responsabile del Centro Regione Veneto terapia del dolore e cure palliative pediatriche.
Quali sono le maggiori preoccupazioni che vengono associate al termine “cure palliative”?
Sulle cure palliative pediatriche c’è una reazione di esclusione: chi ha un malato, ha paura che “cura palliativa” significhi “mio figlio sta morendo”, dunque ne esclude la possibilità; chi invece è al di fuori, appena sente associare i termini “bambini” e “cure palliative”, finisce con l’evitare l’argomento. Mentre le cure palliative per l’adulto hanno già una loro storia, le cure palliative pediatriche devono ancora dimostrare che esistono.
Cosa permettono le cure palliative oggi per questi bambini?
Per prima cosa permettono di tornare a casa. Essere a casa per un bambino significa ricominciare a vivere; il bambino ricomincia a vivere e ad andare a scuola, a rivedere gli amici, a fare la spesa con i genitori… Accanto a questo le cure palliative danno l’assoluto controllo dei sintomi e il recupero delle funzioni che possono essere recuperate, ottimizzandone i risultati: permettono al bambino di essere più bambino possibile.
Perché è nata la carta dei Diritti del bambino morente? Potrebbe essere applicabile a qualsiasi situazione e contesto sociale internazionale?
Certamente sì, mancava qualcosa di pratico che partisse da motivazioni etiche, filosofiche ma soprattutto cliniche, e che fosse disponibile per tutti gli operatori che seguono i bambini negli ospedali, in pronto soccorso, a casa o in terapia intensiva: la messa insieme di più aspetti ha potuto portare a costruire una carta applicabile in tutte le realtà.
Non poche persone sostengono che non abbia senso investire tanto denaro per i malati terminali: perché? È davvero anti-economico?
Quando si parla di cure palliative non si parla solo di terminalità, si parla di inguaribilità: molti pazienti pediatrici nascono già inguaribili ma spesso vivono per molto tempo, anche anni. Noi ci occupiamo di questo tempo dell’inguaribilità. L’approccio alle cure palliative pediatriche è stato studiato anche in termini di efficacia di costo, e ormai sono molteplici i lavori che confermano questo: se si attua un sistema di cure palliative pediatriche a rete, con un centro unico che le gestisce, non solo i bambini vivono meglio e vivono di più, ma si risparmia. Come? Perché molti di questi bambini che sono a casa sarebbero altrimenti in ospedale in ambito critico. Certo, c’è una spesa di start up per creare il team e l’hospice, ma si è visto che a lungo andare questo viene recuperato in maniera importante; inoltre, sull’altro piatto della bilancia, vi è il livello di qualità dell’assistenza e soprattutto di qualità della vita in famiglia, radicalmente diversa: alcuni bambini in terapia intensiva, chiusi per anni, arrivavano anche a 150 giorni di ricovero annuo; mentre gli ultimi dati ci permettono di dire che, dei bambini presi in carico, calano bruscamente il numero e la durata dei ricoveri, e soprattutto i giorni di permanenza in ambito di terapia intensiva.
Perché sarebbe opportuno che i governi e il leader religiosi si impegnino a favore di queste cure?
In Italia abbiamo una legge ottimale, una delle leggi di riferimento a livello europeo ma anche al di fuori dell’Europa. Adesso dobbiamo partire dalla disponibilità di normativa che abbiamo, e portarla al concreto. Negli ultimi dieci anni il numero di questi bambini affetti da malattie inguaribili è esploso: in Italia ce ne sono più di 35mila e questi numeri rendono ragione della necessità di una risposta assistenziale.
In Olanda è stata avviata da tempo la pratica dell’eutanasia per i bambini. Quali dati risultano, su questo modo di procedere, dal punto di vista scientifico pediatrico?
Chi fa cure palliative è assolutamente contrario all’eutanasia, perché “eutanasia” significa di fatto fallimento delle cure palliative: se io riesco a fare il mio lavoro contro il dolore, posso aiutare la famiglia e il bambino ad avere un giusto approccio all’inguaribilità. Non è facile, ma posso aiutare quella famiglia e quel bambino a rendere il tutto meno pesante. Sono quasi trent’anni che faccio questo lavoro ma nella mia esperienza nessuno mai mi ha chiesto di voler morire. La disperazione e l’ansia sono frequenti, ma i genitori non te lo chiedono e i bambini sono delle persone speciali: tu controlli loro il sintomo, li proponi all’interno di una vita sociale, e loro ripartono; è più un problema nostro, degli adulti. I bambini hanno una marcia in più.
Possiamo sperare che la sensibilizzazione alle cure palliative possa offrire un’alternativa più umana all’eutanasia?
Secondo me l’eutanasia non ha alternative, mentre le cure palliative sono un diritto: deve essere chiarito questo, qual è l’obiettivo della medicina? È sbagliato pensare che sia sempre quello di guarire, perché altrimenti non moriremmo mai. Se noi partiamo da questo concetto, che la medicina non ha le potenzialità per guarire sempre, la medicina è solo uno strumento per curare le persone. Le cure palliative fanno parte della medicina, e riescono a curare i bambini anche nel percorso dell’inguaribilità. Nell’hospice dove lavoriamo si vive, si mangia, si lavora tantissimo; la stessa cosa si fa in casa, ma certo non si parla di morte, si parla di vita. L’eutanasia non ha alternativa, è una scelta sbagliata di fare medicina.