Da un po’ di tempo la stampa economica (e non solo) riportano le stime di crescita del PIL italiano, prevedendone un incremento intorno allo 0,7% per il 2015 e all’1,1% per il 2016. Al di là delle cifre, e della scarsa convinzione con cui tali notizie cui vengono digerite da molti lettori, vale la pena soffermarsi sulle cause di tale presunta ripresa dell’economia italiana.
I motivi di tali ipotesi di crescita vanno ricercate innanzitutto nella congiuntura economica internazionale, a meno che non si voglia credere che la riforma del lavoro ed i lavori (tuttora in corso) sulle riforme istituzionali, abbiano davvero dato via ad un cambio di aspettative, inducendo a una maggiore fiducia le imprese italiane.
Bene, ritornando alla questione delle positive previsioni di crescita del PIL italiano, le stesse – a nostro modesto parere – possono essere imputate, in primo luogo, all’Euro debole[1] che avvantaggerà quella parte delle nostre imprese maggiormente vocate all’export. In merito si ricorda che le esportazioni rappresentano circa il 25% del PIL italiano. Una avvertenza: è evidente che un euro più debole avvantaggerà solo quei settori che esportano verso i Paesi extra-EU. Nessun beneficio quindi arriverà dai nostri partner commerciali europei ed in particolare da Francia e Germania.
Tuttavia, a questo elemento di indubbio favore, va ad aggiungersi il calo del prezzo del petrolio[2]. La discesa del prezzo al consumo del petrolio dovrebbe favorire una ripresa della domanda interna: un prezzo del petrolio più basso vuol dire un conto “energia” più basso per il Paese. Per le famiglie ciò vuol dire risparmiare su riscaldamento, elettricità e benzina. Ciò, dovrebbe favorire la spesa per consumi privati.
Ultimo elemento l’emissione di liquidità nel sistema, che se raggiungerà l’obiettivo di riportare l’inflazione al 2%, alleggerirà il peso dei debiti delle famiglie e delle imprese contribuendo a migliorare ulteriormente gli indicatori di fiducia e dare una spinta psicologica ai mercati finanziari, oltre che mantenere bassi i tassi d’interesse e il valore dell’euro.
Ma a parte i dubbi che è lecito nutrire sull’efficacia della politica monetaria adottata dalla BCE, quali sono, invece, le misure indispensabili in tale contesto per stimolare la prevista ripresina, e far in modo che possa portare beneficio in termini di maggior occupazione. In effetti, le migliorate prospettive di crescita non sembrano affatto sufficienti per creare nuovi posti di lavoro e c’è unanime condivisione tra quasi tutti gli analisti, che il tasso di disoccupazione dovrebbe rimanere sopra il 12% per tutto il 2015. Se a questo aggiungiamo la crisi nell’occupazione nel Sud del Paese, che tocca punte di oltre il 22%, abbiamo un quadro ancora molto negativo.
Bene, senza andare tanto per il sottile, sappiamo che la ripresina può costituire un volano per una vera ripresa alle seguenti condizioni tre condizioni.
In primo luogo: si adotti una politica fiscale più coraggiosa. Essa è ancora estremamente restrittiva. Si intervenga, quindi, nella pressione fiscale che resta elevatissima, con maggiori deduzioni in particolare alle imprese, intervenendo con un aumento compensativo sull’imposta per le società.
Infine, si adotti una effettiva lotta agli sprechi, che negli enti locali ha la sua massima espressione. Facile a dirsi, stante la generale condivisione degli economisti seri sul punto, ma ancora difficile ad attuarsi visto che sono altre 20 anni che se ne discute!
Poi, quanto alle vere riforme strutturali di cui il nostro Paese abbisogna, di certo è indispensabile provvedere a rimuovere gli ostacoli che si frappongono concretizzazione dello spirito imprenditoriale, rendendo più agevole l’avviamento e la gestione delle imprese.
Il quadro in materia non è affatto roseo. Le varie riforme della pubblica amministrazione all’esame del parlamento, gettano ombre sempre maggiori sulla reale intenzione di incamminarsi nel difficile cammino della riduzione della “giungla amministrativa”, che è fatta di procedure autorizzative complesse ed articolate e di una giustizia lenta, suddivisa in svariati gradi di giudizio e difficilmente comprensibile dai cittadini.
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[1] Se il 7 maggio del 2014 servivano ben 1,39 dollari per comprare 1 euro, lo scorso 25 gennaio di dollari ne bastavano appena 1,11
[2] Il WTI ed il Brent, a fine 2014 hanno toccato i minimi da oltre cinque anni, attestandosi intorno a quota 60 dollari al barile e, almeno fino a tutto il primo semestre 2015 il prezzo del petrolio, «dovrebbe restare ancora basso, intorno ai 55-60 dollari al barile ». (audizione a.d. Eni alla Camera dei Deputati Febbraio 2015)