Un’elevazione agli altari che potrebbe dissolvere le ombre ideologiche su una figura ecclesiale finora molto discussa. Monsignor Oscar Arnulfo Romero (1917-1980) sarà beatificato a Salvador entro la fine di quest’anno e, secondo il postulatore della causa, monsignor Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, tale evento è una vittoria della Chiesa post-conciliare e votata ai poveri, come auspica papa Francesco.
Significativo è che la beatificazione di tale illustre pastore latinoamericano avvenga sotto il pontificato del primo papa latinoamericano, tuttavia monsignor Paglia, intervenendo oggi ad un briefing in Sala Stampa Vaticana, ha anche precisato che la santità di Romero era stata riconosciuta anche dai due immediati predecessori di Bergoglio.
Fu infatti San Giovanni Paolo II, durante la sua visita pastorale a Salvador nel 1983, a visitare la tomba del vescovo assassinato tre anni prima e, dopo aver imposto le mani sulla tomba, a dichiarare: “Romero è nostro, Romero è della Chiesa!”.
Svariati anni dopo, durante il Giubileo del 2000, papa Wojtyla volle ricordare il vescovo di Salvador, inserendone il nome, assente nel testo, nell’oremus finale, durante la celebrazione dei nuovi martiri.
Anche Benedetto XVI, in occasione della conferenza di Aparecida del 2007, affermò senza mezzi termini che per lui Romero era come se fosse già “beato”.
In seguito, il 20 dicembre 2012, un paio di mesi prima della sua rinuncia, papa Ratzinger predispose lo sblocco della causa di beatificazione, affinché proseguisse il suo itinerario ordinario.
Anche il beato Paolo VI ha avuto un ruolo determinante nella vita di Romero, in quanto il martire salvadoregno vedeva in lui un “difensore” e un “ispiratore”, ha ricordato monsignor Paglia.
Il postulatore ha poi sottolineato due coincidenze significative: la promulgazione del decreto di martirio, avvenuta ieri, giorno della memoria liturgica di Sant’Oscar; il quasi contemporaneo avvio della causa di beatificazione del missionario gesuita Rutilio Grande, martirizzato nel 1977, anch’egli in El Salvador.
Come San Tommaso Beckett e Santo Stanislao di Cracovia, Oscar Arnulfo Romero è stato martirizzato sull’altare, ha osservato monsignor Paglia. Egli fu “ucciso proprio nel momento più sacro, durante l’atto più alto e più divino”, mentre “esercitava la propria missione santificatrice offrendo l’Eucarestia”, ha detto il presule, citando le parole di San Giovanni Paolo II.
Con Romero si volle “colpire la Chiesa che sgorgava dal Concilio Vaticano II”, al punto che propriamente si può parlare di un “martire della Chiesa del Vaticano II”, ha aggiunto Paglia.
Scegliendo di stare accanto ai poveri, monsignor Romero dimostrò la propria sollecitudine per il “bene comune” e “l’amore per il suo paese”, anche per i ricchi che lo vedevano come avversario.
Di seguito è intervenuto il professor Roberto Morozzo della Rocca, ordinario di Storia Contemporanea all’Università di Roma Tre, e autore di una biografia del futuro beato in corso di pubblicazione, sottolineando in particolare quanto l’‘impopolarità’ di Romero presso le élite del suo paese fu dovuta soprattutto al fatto che la chiesa salvadoregna era stata fino allora dalla parte della classe dirigente, la quale vide nella scelta del vescovo di Salvador, una sorta di ‘tradimento’.
A differenza di quanto pensato da molti, tuttavia, Romero non fu mai dalla parte degli estremisti, anzi, ebbe “rapporti critici” con la guerriglia nel suo paese, finendo di fatto “stritolato dalla polarizzazione tra questa componente e il potere”, ha sottolineato lo storico.
Romero chiedeva “giustizia in termini spirituali e non politici” e visse i suoi ultimi anni oppresso da “lettere piene d’insulti, telefonate minatorie, avvisi persino in televisione” che fecero presagire in lui l’imminenza del martirio.
In realtà, Romero era terrorizzato dalla morte: “Nelle ultime settimane ogni rumore gli dava soprassalto. Un frutto di avocado che cadeva sul tetto della sua modesta dimora lo gettava nel panico. Un qualsiasi rumore notturno lo portava a nascondersi”, ha raccontato il professor Morozzo della Rocca.
L’arcivescovo di Salvador, tuttavia, “non pensava ad una morte eroica che facesse la storia, non voleva sfidare i nemici del popolo a ucciderlo per poi mostrarsi risorto nella rivoluzione, non concepiva il suo martirio in senso ideologico come un simbolo di lotta avvenire” ma pensava, piuttosto, alla sua morte “secondo la tradizione della Chiesa, per la quale il martire non è una bandiera contro, non è un atto d’accusa verso il persecutore, ma un testimone della fede”, ha quindi concluso il docente.
È infine intervenuto monsignor Jesus Delgado, postulatore della causa di beatificazione in El Salvador, che Romero scelse come segretario nel 1977.
Delgado ha riferito che Romero non fu amato nemmeno dal clero del suo paese e ha raccontato l’ultimo giorno del vescovo, al quale, il 24 marzo 1980 – giornata densa di appuntamenti per il presule salvadoregno – egli stesso propose di sostituirlo per la celebrazione della messa delle 18.
Dopo aver inizialmente accettato, monsignor Romero cambiò idea: “Meglio di no, celebrerò io la Messa, non voglio coinvolgere nessuno in questo”, disse il vescovo.
“Potevo essere ucciso io al suo posto. Il killer doveva sparare perché era stata annunciata la presenza di Romero come celebrante”, ha dichiarato monsignor Delgado.