La massa imponente di pellegrini convenuti a Roma per la canonizzazione di Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo II ha dimostrato plasticamente, mentre i venti di guerra tornano a soffiare minacciosi sull’Europa, la capacità di mobilitazione della Chiesa, sia in senso spirituale, per le sue motivazioni, sia in senso materiale, per le sue dimensioni.
L’identità cristiana, e più in là di essa l’identità insita nella fede in Dio, travalicano i limiti posti dalle identità etniche, ricordandoci la necessità anche storica di una loro sintesi, di una loro “reductio ad unum”: molte le bandiere innalzate a San Pietro, ma una sola l’aspirazione alla trascendenza.
Di fronte a questo spettacolo, il Vescovo di Roma aveva la responsabilità di indirizzare la massa dei suoi seguaci, in un certo qual modo di spendere il prestigio che gliene derivava nell’ambito mondiale. E lo ha fatto richiamandosi, sulla base del Vangelo del giorno, ai principi del Cristianesimo.
La nostra fede spiega le sofferenze umane vedendo il loro riscatto nello sofferenza del Cristo: nelle piaghe che San Tommaso volle toccare, e che anche noi tocchiamo contemplando il dolore diffuso nel mondo.
La sofferenza umana costituisce dunque il riferimento dell’agire cristiano, e richiede una dedizione totale, come quella propria dei primi seguaci di Gesù, che praticavano la comunione dei beni: di qui l’impegno per il bene, l’impegno per la giustizia, del quale è connaturata la comunità dei credenti, cioè la Chiesa.
La sua azione nella storia richiede però un continuo riesame, un continuo aggiornamento, come quello compiuto dal Concilio. Parlando di San Giovanni XXIII, Bergoglio ha detto che il suo predecessore, pur grande, si fece però strumento dello Spirito Santo. Ed è lo Spirito Santo che illumina il Magistero del Papa e dei Vescovi, è lo Spirito Santo che ha ispirato i documenti del Concilio.
Nessun uomo, neanche il Papa, può emendare, e tanto meno ridiscutere, le verità ispirate da Dio. E’ dunque inutile pretendere che il Pontefice contraddica il Concilio: Concilio, dunque, non solo pastorale, le cui affermazioni sono indiscutibili.
Con queste parole del Papa, pronunziate in presenza del suo predecessore, come a voler significare che è anche vano speculare su di una supposta diarchia o contraddizione nella Santa Sede, se non addirittura su di una pretesa illegittimità dell’attuale Papa, basata sulla contestazione della rinunzia di Benedetto XVI, è da considerare definitivamente chiusa la “querelle” promossa a questo riguardo da certi ambienti tradizionalisti.
Ora si apre la strada a tutte le misure attinenti il governo della Chiesa che dall’affermazione del Papa conseguono, anche – se necessario – sul piano disciplinare.
Lo esige l’unità della comunità dei credenti in un momento in cui essa può trovarsi ad affrontare prove simili a quelle conosciute nella loro vita, durante lo scorso secolo, dai due Pontefici ora canonizzati.
E’ interessante notare come a proposito di Giovanni Paolo II l’attuale Vescovo di Roma non abbia ricordato la sua opera geo strategica: non certo perché egli la sottovaluti, o perché ne dissenta, ma in quanto essa è vista come conseguenza di quella fede nell’uomo, opposta ad ogni oppressione, che accomunava il Papa polacco con Giovanni XXIII.
Possono dunque cambiare i soggetti, siano essi ideologici, politici o statuali, nei riguardi dei quali la libertà e la dignità umana debbono essere difese – e da questo punto di vista il contesto geografico e culturale in cui si è mosso Bergoglio non è certo meno importante rispetto agli ambienti di origine dei suoi predecessori – ma la causa è la stessa, ed è lo stesso lo scopo che la Chiesa persegue.
Ora ci attende un altro tratto del suo cammino. Giustamente si dice che i morti non sono dietro di noi, ma sono davanti a noi: ed in particolare i Santi, avendo raggiunto la perfezione, ci indicano la strada da percorrere. Se dunque in loro abbiamo un esempio degno di essere imitato, nell’attuale Vescovo di Roma abbiamo un pastore degno di essere seguito.