Per una possibile e reale generazione

Una riflessione sulla “incostituzionalità” della fecondazione eterologa

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Il divieto di fecondazione eterologa è incostituzionale. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità della norma della legge 40 del 2004 che vieta il ricorso a un donatore esterno di ovuli o spermatozoi nei casi di infertilità o di coppie omosessuali. Diverse e comprensibili reazioni di disagio sono sorte a ribadire la miopia ebete di una legge che contrappone l’egoismo tirannico del diritto al figlio al diritto stesso del figlio circa la certezza sulle proprie origini.

Eppure sarebbe un’occasione sprecata non tentare almeno di capire quali siano le sottili implicazioni e quale il significato sincero che un fatto simile porta con sé. A partire dunque dalla lascivia che fa coincidere il progresso dell’uomo con la pretesa rattrappita di superare qualsiasi limite – salvo il bollare come limite l’uomo stesso nel suo più elementare e scientifico dato naturale – ciò che qui si rivendica violentemente è l’illusione di possedere l’origine della vita. Mentre invece  agli uomini è affidato in custodia l’inizio e lo sviluppo di tutte le cose ma l’origine di esse li trascende sempre.

In altri termini appare evidente come la differenza tra l’adozione e questo tipo di fecondazione sta infatti solo in questo; nell’opinione instabile che il figlio è veramente tuo se “l’hai fatto tu”. E dal momento che io non posso e questa mia condizione è un impedimento, per fortuna c’è la scienza che, nella sua magnanimità cieca e demente, elargisce poteri e capacità altrimenti impensabili. Ma questi figli, allora, sono figli di chi? E cosa vuol dire essere genitori? Chi è in grado di comprendere fino in fondo il dramma di quella madre che – come emerso dalla cronaca recente – a causa di una banale disattenzione da parte dei medici nell’applicare il corrispettivo codice a barre all’una e all’altra provetta, non sa di chi sia figlio quel figlio che ha in grembo? E ora che le stesse categorie di padre e madre hanno un sapore di vecchio e superato (come se il termine genitore,che gli viene oggi preferito, sia in sé stesso meno pieno della radicalità propria del medesimo contenuto) dovremo forse aspettarci i nuovi “figli della scienza”.

Più precisamente orfani impazziti e degenerati, ma nel senso più profondo della parola: chi non genera degenera! È questa l’immagine che Dante, nella sua Commedia che il Boccaccio definirà poi divina, ci offre del diavolo, conficcato nel ghiaccio. Il fuoco indica infatti la vita; il gelo, al contrario, allude alla fissità e alla sterilità del peccato; per questo egli è infelice, cioè incapace di fiorire e produrre frutto, e delira nella follia della sua impotenza. Pertanto c’è prima di tutto una crisi d’identità da evacuare, poiché essa conduce alla schizofrenia più cupa.

Perché quindi è possibile questo? E perché può non esserlo? Con la discrezione e la sensibilità tipiche del popolo russo, è Dostoevskij a scriverlo in uno dei suoi capolavori, I fratelli Karamazov, mettendo le parole in bocca a Smerdjakov, l’autore del parricidio intorno al quale si costruisce tutta la vicenda: Nel momento in cui egli confessa al fratellastro Ivan la ragione che lo ha spinto ad uccidere il padre, dice: «l’ho fatto perché ̔ tutto è permesso.̕ Me lo avete insegnato voi: ̔̔ perché se non esiste un Dio infinito, non esiste neppure la virtù, anzi non ce n’è proprio bisogno.̕ Così dicevate. E così ho ragionato io».

Di fronte ad eventi del genere la sola speranza che ci conforta è perciò nella fecondità della certezza che questo Dio di cui Dostoevskij parla esiste realmente e ci raggiunge ancor oggi nella vita della Chiesa. A noi il vero unico compito di riconoscerlo. Con letizia e amore di figli.

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Giovanni Maria Molfetta

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