La storia degli ebrei salvati dall’Olocausto nazista si conferma una miniera di inesauribili tesori, la maggior parte dei quali ancora sepolti nel sottosuolo della memoria collettiva e quasi sempre destinati ad emergere in superficie solo dopo moltissimi anni.
È il caso della vicenda di don Giovanni Gregorini, per una quarantina d’anni parroco a San Benedetto nel quartiere Ostiense, appena fuori dal centro storico di Roma.
Nel 1943, il trentenne don Gregorini aveva appena preso le redini della parrocchia, quando si ritrovò a soccorrere un gruppo di ebrei inseguiti dalle SS, durante i giorni del rastrellamento nel ghetto di Roma e del successivo eccidio delle Fosse Ardeatine.
La storia di don Gregorini è stata raccontata ieri pomeriggio presso la parrocchia di San Benedetto, nel corso di un evento speciale, in cui la comunità parrocchiale ha fatto conoscenza con alcuni membri della comunità ebraica, scampati al rastrellamento.
Durante la conferenza è intervenuta Anna Foa, docente di storia moderna all’Università La Sapienza di Roma, uno dei più noti rappresentanti della comunità ebraica romana, che nel suo libro Portico d’Ottavia 13. Una casa del ghetto nel lungo inverno del ’43, ha raccontato la storia di una famiglia ebrea rifugiatasi in quell’anno nella chiesa del quartiere Ostiense.
Una copia del volume, la professoressa Foa l’ha donato alla parrocchia di San Benedetto, con una dedica autografa alla memoria di don Gregorini.
Nell’introdurre l’ospite, monsignor Andrea Lonardo, direttore dell’Ufficio Catechistico del Vicariato di Roma, ha spiegato quanto sia errato affermare che, in quegli anni, “la storia era segnata”: è proprio la testimonianza eroica di personaggi come Giorgio Perlasca o come lo stesso don Gregorini a dimostrare l’esatto contrario.
Da parte sua, don Fabio Bartoli, attuale parroco di San Benedetto ha definito l’omaggio della comunità ebraica al suo predecessore come “un tributo alla nostra famiglia; è come se parlassero di un nostro antenato”.
La professoressa Foa ha quindi raccontato i particolari dell’incontro di Attilio Veroli e suo figlio Michele con don Gregorini e di come il parroco li avesse accolti in chiesa, senza esitazioni, intrecciando un rapporto umano ed un’amicizia intensissima. “Entra, Attilio! – aveva detto il parroco – Ci è appena arrivato l’ordine di nascondervi”.
Don Gregorini, in seguito avrebbe avuto l’ingrato compito di riconoscere le salme di Attilio e Michele, fucilati alle Fosse Ardeatine.
Furono tre le famiglie che trovarono rifugio a San Benedetto: gli uomini rimasero nella parrocchia, mentre le donne furono successivamente trasferite presso il monastero di clausura di Tor de’ Specchi, dove – come ha sottolineato la Foa – “le suore avevano l’accortezza rispettosa di non aggiungere il lardo” alle zuppe destinate alle ospiti ebree, alle quali fu fatto indossare il velo per non destare sospetti nel caso di un’irruzione dei nazisti.
È anche ad episodi come questi, ha commentato la storica ebrea, e all’“umanità straordinaria” di personaggi come don Giovanni Gregorini “che dobbiamo il cambiamento nei rapporti ebreo-cristiani”. Per questo motivo, ha aggiunto Foa, il sacerdote romano “merita il titolo di Giusto tra le Nazioni”.
Tra i rappresentanti della comunità ebraica, ha offerto la propria testimonianza Costanza Fatucci, circa dieci anni all’epoca del rastrellamento nazista.
Profondamente commossa, la signora Fatucci ha ricordato la disperazione di quei giorni con la città stritolata dalla tenaglia dell’invasione tedesca da un lato e, dall’altro, dei bombardamenti degli anglo-americani che fecero crollare almeno 3-4 palazzi nei dintorni della parrocchia di San Benedetto.
Un’immagine è rimasta impressa nella mente della donna: don Gregorini che regge in mano l’ostensorio pieno di fuliggine, dopo il bombardamento della chiesa nel marzo 1944. Il parroco di San Benedetto è stato descritto dalla sopravvissuta come “un uomo burbero ma sempre dolcissimo”.
Un’altra testimonianza è stata fornita da don Luigi Parone, sacerdote della Compagnia di San Paolo, viceparroco di don Gregorini negli anni ’80, poi suo successore. “Abbiamo collaborato per dieci anni – ha raccontato – mi sento un suo figlio spirituale”.
Don Gregorini, ha proseguito don Parone, era un santo sacerdote “con l’assillo dell’accoglienza”, tanto più che fu “camerlengo dei parroci romani”. Un giorno che pioveva dentro la sacrestia, don Gregorini descrisse ciò come un segno della “perfetta letizia”.
Nella più totale discrezione, senza nessuna smania di apparire o far parlare di sé, don Giovanni Gregorini è uno di quegli uomini che, nel loro piccolo, segnano la storia del proprio paese, della Chiesa e dell’amicizia fraterna tra comunità religiose diverse.