La basilica patriarcale di San Paolo fuori le Mura venne eretta in un luogo che all’epoca era piuttosto lontano dall’Urbe come antemurale contro le incursioni dei Saraceni, che potevano sbarcare sul litorale di Ostia e di qui minacciare l’Urbe; e in effetti essi riuscirono in un caso a raggiungerla. L’antico tempio, se si trova lontano dalle Mura Aureliane, è tuttavia circondato da un proprio perimetro difensivo, che lo fa assomigliare ad una fortezza.
Dopo il Concilio, esso è assurto a simbolo dell’ecumenismo cristiano, essendo stato prescelto come sede di molti incontri trai Cattolici e quelli che un tempo si chiamavano “fratelli separati”, come a voler significare che il Cristianesimo – nel mondo attuale – vive in un certo qual senso sotto assedio, e dunque è necessario superare al più presto le sue interne divisioni.
Inoltre, prima dello scisma promosso da Enrico VIII, San Paolo fuori le Mura era la Chiesa nazionale degli Inglesi, come San Luigi è ancora quella dei Francesi, per cui i vari Papi vi ricevono solennemente i Primati di Canterbury (Paolo VI) vi si tolse l’anello detto “Piscatorio”, simbolo del potere pontificio, per regalarlo al Primate, spirituale degli Anglicani); quando la piena comunione sverrà ristabilita, il tempio verrà dunque affidato ai Cristiani d’oltre Manica.
In questa cornice storica, il nuovo Papa ha esordito come protagonista del dialogo con gli altri Cristiani, atteso ai Vespri solenni, nel giorno della festa di San Paolo, dal rappresentante degli Anglicani, Moxon, e da quello degli Ortodosso, Gennadios.
Tutti attendevano che Bergoglio tracciasse un programma relativo al dialogo tra le Chiese, ma il Papa – pur dicendo nella circostanza qualcosa di nuovo – doveva soltanto ribadire ed ampliare alcuni concetti già esposi nei mesi scorsi. Il primo, e più importante, di essi, venne affermato fin dal momento in cui si presentò, appena eletto ai fedeli, qualificandosi come “Vescovo di Roma”.
Tale ere considerato il Papa – come ben sa chi conosce la storia ecclesiastica – fino a San Silvestro, contemporaneo di Costantino, perché solo da quel momento il titolare della sede dell’Urbe iniziò ad attribuirsi un potere sulle altre Chiese locali.
Ascoltiamo le precise parole del Papa: “Il cammino ecumenico ha permesso di approfondire la comprensione del ministero del Successore di Pietro e dobbiamo avere fiducia che continuerà ad agire in tal senso anche per il futuro”.
Ciò significa che la ridefinizione del primato di Pietro, di cui l’Enciclica “Ut unum sint” di Giovanni Paolo II aveva prospettato di discutere le forme di esercizio, costituisce come un “work in progress”, sul quale le diverse Chiese non stanno tanto discutendo quanto piuttosto collaborando.
E qui ritorna di attualità la considerazione già espressa sul metodo di governo del Papa, che abbiamo paragonato ad un direttore d’orchestra fiducioso delle capacità dei singoli Professori, per cui non tanto comanda, quanto piuttosto li coordina ed li armonizza tra loro.
Se a questo aggiungiamo che gli incaricati del dialogo tra le Chiese non sono naturalmente soltanto cattolici, ma anche componenti delle altre denominazioni cristiane, arriviamo a concludere che il lavoro iniziato proseguirà e giungerà felicemente a conclusione. L’unità – dice il Papa – non verrà come un miracolo alla fine, ma nel cammino, la fa lo Spirito Santo nel cammino”.
Il dialogo non è dunque un negoziato, che può riuscire o fallire, ma una collaborazione concreta che già prefigura il proprio esito. L’obiettivo, afferma sempre Bergoglio – consiste “nella diversità riconciliata”: non si tratta dunque di una “reductio ad unum”, né dal punto di vista organizzativo e disciplinare, né dal punto di vista propriamente dottrinale: il Papa prefigura un cristianesimo in cui – intorno ad alcune indiscutibili verità della fede – vi sia spazio per un libero dibattito. Anziché, per l’appunto – la “reductio ad unum” – la realizzazione dello “e pluribus unum”.
“Last but not least”, al Papa sta a cuore quello che chiama lavorare “in tante cose che possiamo fare in questo mondo per il popolo di Dio”: egli ha certamente presente l’impegno umanitario comune: la crisi non può soltanto portare ad una esasperazione delle diverse identità religiose, mettendo in pericolo la collaborazione ecumenica: a volte ci si combatte nell’ambito di una stessa fede, come testimonia in queste ore la situazione di incipiente guerra civile dell’Ucraina, ove ambedue i contendenti sono cristiani ortodossi.
Quello “ospedale da campo” che è la Chiesa è diventato a divenire un ospedale da campo in cui lavorano insieme tutti gli uomini di buona volontà: “Ut unum sint”, per l’appunto.