A testa alta per la libertà contro il male

Cent’anni fa nasceva Etty Hillesum

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Etty Hillesum era nata in Olanda il 15 Gennaio 1914, un secolo fa. Anche per questo voglio ricordarla oggi, a poca distanza dalla Giornata della Memoria. La sua vita fu breve e intensa: laureatasi in giurisprudenza ad Amsterdam, si iscrisse anche alla facoltà di Lingue Slave e si interessò della psicologia analitica junghiana. La guerra interruppe i suoi studi. Fu una donna vivace, intelligente, brillante, dai molteplici interessi. Visse con intensità e passione alcune relazioni d’amore.

Nel 1942, quando lavorava come segretaria presso una sezione del Consiglio Ebraico, le fu offerta la possibilità di mettersi in salvo, fuggendo in America. Scelse di restare, per condividere la sorte del suo popolo, quel popolo ebraico che la barbarie nazionalsocialista aveva deciso di sterminare. Lavorò nel campo di transito di Westerbork come assistente sociale.

Il 7 settembre 1943 fu deportata con i suoi cari ad Auschwitz. Vi morì poco tempo dopo, uccisa dal gas, il corpo divorato dalle fiamme, il 30 Novembre 1943. Aveva ventinove anni. Di lei ci restano le pagine intensissime del Diario (pubblicato nel 1981, in italiano nel 1985 da Adelphi) e delle Lettere (Adelphi 1990). Nel cuore della tragedia, che aveva visto il momentaneo trionfo del “male assoluto”, al centro del “secolo breve” che è stato il XX secolo, in un tempo schiacciato dal peso di una follia collettiva senza pari, alimentata da un’ideologia assurda di violenza e di morte, Etty portò avanti la sua appassionata ricerca spirituale. Si nutrì di Jung, di Dostoevskij (in particolare de L’idiota) e degli altri grandi scrittori russi, e soprattutto della poesia di Rainer Maria Rilke.

Lesse la Bibbia ebraica, specialmente i Salmi. Scoprì e meditò il Nuovo Testamento, in particolare il Vangelo di Matteo e l’apostolo Paolo, e autori cristiani, tra cui l’amatissimo Agostino. Dalla finestra della sua stanza osservava a lungo il cielo notturno, il grande orizzonte. Si fermava con occhio intenerito sui fiori, sempre presenti sulla sua scrivania. Nel dramma che viveva il suo popolo e l’intera umanità, seppe tener alto lo sguardo ed essere un “cuore pensante”. La linfa attinta alla radice antica e profonda dell’albero ebraico, aperta ad accogliere la meravigliosa fioritura del Vangelo, le consentì di attraversare a testa alta, con libertà radicale e con amore immenso per le vittime, la stagione forse più drammatica del Novecento europeo.

Proprio così, il messaggio della Hillesum è oggi più vivo che mai. In un’epoca di crisi diffusa che, prima che materiale ed economica, è morale e spirituale, ha qualcosa da dire a tutti noi questa giovane donna, che ha saputo non arrendersi al male. La sua è stata una straordinaria forma di resistenza, capace di contagiare forza e speranza a distanza di anni, in situazioni certo mutate e di fronte a difficoltà differenti.

La lettura di un solo brano del suo Diario basterà a far luce sul perché di questa convinzione: è la preghiera della Domenica mattina, 12 Luglio 1942. Etty annota:  “Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano”.

Figlia del suo tempo, questa donna non chiude gli occhi di fronte al dramma, non fugge, e trova nel dialogo più profondo, che sia possibile all’anima, uno squarcio di luce: “Ti prometto una cosa, mio Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani – ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la sua parte. Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla”. Lontana da ogni presunzione, consapevole anzi della sua debolezza e di quella di ogni cuore sincero, Etty accetta di fare la sua parte, si assume il peso della sua responsabilità di fronte al bene da fare e al male da fuggire: “Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio”.

Per questa via, la giovane Ebrea olandese capisce qual è la sua missione nei confronti del prossimo, che è stata chiamata a servire e ad amare: “Forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali, ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi”. È qui che passano davanti agli occhi del suo cuore pensante le tante, umanissime reazioni alla follia devastante che impera: “Esistono persone che all’ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolveri, forchette e cucchiai d’argento – invece di salvare te, mio Dio. E altre persone, che sono ormai ridotte a semplici ricettacoli di innumerevoli paure e amarezze, vogliono a tutti i costi salvare il proprio corpo. Dicono: me non mi prenderanno. Dimenticano che non si può essere nelle grinfie di nessuno se si è nelle tue braccia”. Giunta a questa certezza, Etty si traccia un programma di vita, che la condurrà a offrire tutta se stessa per gli altri, e proprio così a vincere col suo messaggio di speranza la cieca barbarie dei tempi in cui visse: “Comincio a sentirmi un po’ più tranquilla, mio Dio, dopo questa conversazione con te. Discorrerò con te molto spesso, d’ora innanzi, e in questo modo ti impedirò di abbandonarmi. Con me vivrai anche tempi magri, mio Dio, tempi scarsamente alimentati dalla mia povera fiducia; ma credimi, io continuerò a lavorare per te e a esserti fedele e non ti caccerò via dal mio territorio”. Questa fiducia, più grande di ogni abbandono, questa speranza più forte della morte, sono l’eredità che la Hillesum lascia alle donne e agli uomini del nostro e di ogni tempo. Un’eredità difficile, forse addirittura una sfida: eppure, l’unica per la quale valga la pena impegnarsi, e che apra agli occhi della mente e del cuore un futuro di rinascita, donando al contempo i segnali dell’aurora di una speranza possibile e vittoriosa sulla morte e sul male.

Fonte: Il Sole 24 Ore, domenica 19 gennaio 2014, pp.1 e 8

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Bruno Forte

Arcivescovo di Chieti-Vasto

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