L’antropologia esistenzialista si comprende all’interno della modalità di pensiero inaugurata da Kierkegaard, il quale ha posto al centro della sua riflessione l’esistenza concreta del singolo[1], e ha rifiutato, nel contempo, l’astrattezza del sistema idealistico hegeliano, che “si dimentica” dell’esistenza degli individui umani e considera concreta e reale soltanto la Ragione universale.
Hegel è il filosofo dell’essenza mentre Kierkegaard è il filosofo dell’esistenza, intesa come la concreta storica realtà di ogni individuo umano.
Nella filosofia hegeliana l’individuo umano è fagocitato nel sistema delle idee, dal quale è indeducibile l’esistenza concreta dei singoli. Shelling, nell’ultima fase del suo pensiero, aveva criticato l’idealismo hegeliano perché era impossibilitato a prendere in considerazione l’esistenza in quanto tale.
Infatti dall’analisi a priori di un’essenza ideale è impossibile dedurne l’esistenza, come già Kant aveva evidenziato con il famoso esempio dell’idea di “cento talleri”. Il filosofo notava che il concetto di “cento talleri” è perfetto in se stesso indipendentemente dal fatto che queste monete esistano o non esistano, mentre nel piano della realtà la loro esistenza o inesistenza non è affatto indifferente per il loro possessore[2].
In questo modo Kant cercava di inficiare il valore della prova a priori dell’esistenza di Dio di Sant’Anselmo, secondo il quale dall’idea di un essere di cui non si può pensare il maggiore si deve dedurre la sua esistenza. Questa prova era stata riformulata da Cartesio, il quale dimostra l’esistenza di Dio inferendola dall’idea di Essere perfetto, cioè dell’essere che, avendo tutte le perfezioni, deve necessariamente possedere la perfezione dell’esistenza, che è il fondamento di tutte le altre.
Scrive in proposito Cartesio:
“Quando […] tornavo a prendere in esame l’idea che avevo di un Essere perfetto, trovavo che l’esistenza vi era compresa come nell’idea di triangolo è compreso che i suoi tre angoli sono eguali a due retti, o come in quella della sfera che tutte le sue parti sono poste ad un’uguale distanza dal centro e perfino con maggiore evidenza; e di conseguenza che Dio, cioè questo Essere perfetto, sia o esista, è almeno tanto certo quanto non potrebbe esserlo nessuna dimostrazione di Geometria”[3].
A ben vedere la critica di Kant alla prova a priori dell’esistenza di Dio non regge, perché l’idea di “cento talleri” non implica la sua esistenza, a differenza dall’idea di essere perfetto, che è inconcepibile senza la perfezione dell’esistenza.
Colui che ha confutato questa prova, anche se si riferiva a Sant’Anselmo, è San Tommaso. Egli ha infatti evidenziato l’indebito passaggio dall’ordine logico-ideale a quello reale-concreto[4], per cui, secondo l’argomentazione a priori, si dovrebbe affermare l’esistenza puramente ideale di Dio, ma non quella reale.
Shelling, come è stato detto prima, contestava a Hegel l’indeducibilità dell’esistenza concreta della realtà dall’analisi a priori delle essenze ideali e Kierkegaard ha probabilmente appreso questa critica quando negli anni 1841-1842 si recò a Berlino per seguire le lezioni di Shelling.
L’esistenza, afferma Kierkegaard, “non coincide con il concetto. Per un singolo animale, una singola pianta, un singolo uomo, l’esistenza (essere o non essere), è qualcosa di molto decisivo; un uomo singolo non ha certo un’esistenza concettuale”.[5]
L’esistenza “corrisponde alla realtà singolare, al singolo”[6], e, conseguentemente, la riflessione del filosofo sarà tutta incentrata sulla vita concreta dell’individuo umano con le sue vicissitudini, speranze e dolori che la contraddistinguono in contrapposizione alla astratta dialettica delle idee di Hegel, perché “il singolo uomo è al di sotto del concetto”[7].
Ogni uomo deve acquisire la consapevolezza di essere un “singolo”, Kierkegaard afferma infatti che “bisogna prima di tutto tenere presente che ogni uomo è un singolo uomo e deve avere la consapevolezza di essere un singolo uomo”[8].
L’essere umano vive e pensa per lo più come “massa”, cioè come elemento anonimo di una struttura. Vive quindi in modo esteriore e superficiale e scopre la propria dimensione più autentica e vera quando prende coscienza della propria singolarità, quindi della propria unicità ed eccezionalità.
Kierkegaard analizza la dimensione ontologica del singolo a partire dalla riflessione introspettiva su se stesso, per cui la sua è una filosofia in prima persona. Essa, infatti, è una filosofia della soggettività , nella quale l’essere umano viene considerato non dall’esterno, in maniera oggettivistica (come fa la scienza), ma dall’interno, per cui è il soggetto, l’essere umano, che riflette su se stesso. Scrive in proposito:
“Oggettivamente si parla soltanto della cosa, soggettivamente si parla del soggetto e della soggettività: qui per l’appunto è la soggettività che è la cosa. Si deve sempre mantenere questo, che il problema soggettivo non tratta di qualcosa su qualcosa, ma è la soggettività stessa”[9].
Kierkegaard analizza l’esistenza dal di dentro. Essa, infatti, è prima di tutto l’analisi della sua esistenza umana e, in quanto umana, con tratti comuni a ogni individuo umano. Il filosofo considera l’esistenza nel senso etimologico del termine, cioè come ex-sistere, quindi come venire o stare fuori. In particolare come venire da Dio, dal quale ogni individuo umano si è distaccato per una colpa originaria, e come stare in un mondo connotato dal peccato.
Kierkegaard, interpreta l’esistenza umana, alla luce della sua fede luterana[10], secondo la quale il peccato originale non indebolisce ma distrugge la natura umana, per cui l’uomo è assolutamente incapace di compiere il bene.
L’esistenza umana è quindi intrinsecamente peccaminosa e quindi ogni individuo vive nella disperazione e ricerca una salvezza.
Salvezza che può essere raggiunta, come vedremo, soltanto nella scelta della fede. L’individuo è libero e la sua libertà gli consente di scegliere tra infinite possibilità, di fronte alle quali è preso da un sentimento di angoscia.
Scrive al riguardo:
“L’angoscia si può paragonare alla vertigine. Chi volge gli occhi al fondo di un abisso, è preso dalla vertigine. Ma la causa non è meno nel suo occhio che nell’abisso: perché deve guardarsi. Così l’angoscia è la vertigine della libertà, che sorge […] guardando giù nella sua propria possibilità […]”.[11]
Secondo il filosofo il singolo è chiamato continuamente a scegliere tra più possibilità e ogni scelta comporta sempre un “aut-aut”, quindi il singolo deve sempre decidere in rapporto ad alternative inconciliabili: infatti ogni scelta esclude tutte le altre possibili.
Le scelte più significative riguardano tre modi di essere che, secondo Kierkegaard,sono paradigmatici dell’esistenza umana, denominati: stadio estetico, stadio etico e stadio religioso[12].
I tre stadi non devono essere intesi, hegelianamente, come tre momenti dialettici: tesi stadio estetico, antitesi stadio etico e sintesi stadio religioso. Essi non sono infatti necessariamente connessi tra di loro, ma sono tre possibilità esistenziali, la cui dialettica è quella dell’ aut-aut (e non dell’et-et).
Ogni individuo può vivere in modo estetico o etico o religioso.
L’uomo estetico è non solo l’artista, ma, in generale, chi vive assecondando la propria sensualità. Infatti, il termine “estetico” deriva da greco aistesis, che vuole dire sensazione.
Per descrivere concretamente il modo di vivere estetico, il filosofo presenta no
n un’astratta speculazione teorica ma un personaggio: Don Giovanni. Ugualmente, ne presenta uno, il giudice Guglielmo che rappresenta la vita etica e un altro Abramo che personifica la fede.
Don Giovanni è il viveur che passa da una donna all’altra senza mai soddisfarsi, essendo sempre alla ricerca di nuovi piaceri. Fondamentalmente non sceglie mai, ma continuamente si fa scegliere dalle situazioni in cui si trova a vivere. Don Giovanni vive l’attimo, è l’uomo del carpe diem; la sua esistenza è un insieme di momenti scollegati tra di loro senza una vera e propria continuità storica. Infatti, egli, scrive il filosofo, “non ha […] una sua sussistenza, ma urge in un eterno sparire […]”.[13]
Don Giovanni è un disperato, “il demoniaco, che non […] smetterà di sedurre come il vento di soffiare impetuoso, il mare di dondolarsi o una cascata di precipitarsi giù dal suo vertice”.[14]
Il giudice Guglielmo è anch’egli un disperato, anche se, all’apparenza vive un’esistenza tranquilla e serena.
Il giudice è un uomo etico: lavora onestamente, è un marito fedele e un bravo padre di famiglia. E’ l’uomo che ha saputo compiere scelte definitive e che si impegna nella vita in modo continuativo, la sua è quindi un’esistenza che ha una dimensione storica a differenza della vita frammentaria dell’esteta.
Il giudice Guglielmo è l’individuo che vive secondo la legge e al quale neanche Dio può rimproverare nulla. Ha quindi la presunzione di salvarsi con le sue forze, per cui la sua situazione esistenziale è ancora più disperata di quella del Don Giovanni.
L’unica via di uscita dall’angoscia e dalla disperazione esistenziale, che connotano lo stadio estetico e quello etico, è rappresentata dalla fede cristiana.
La fede è Abramo, cioè un uomo che si è affidato totalmente alla volontà del Signore, che ha sperato contro ogni speranza, offrendo in sacrificio a Dio il figlio della promessa, Isacco, che, secondo il piano divino, doveva essere il primo dei discendenti di Abramo, i quali avrebbero dovuto popolare tutta la terra ed essere più numerosi delle stelle del cielo.
Dio, chiedendo il sacrificio di Isacco contraddice se stesso, ma Abramo obbedisce comunque al suo comando fidandosi della giustizia e della misericordia divina.
Abramo è il singolo che dice sì alla chiamata di Dio e si abbandona totalmente a Lui, non vivendo più secondo la legge etica. Abramo infatti era pronto anche a uccidere il proprio figlio pur di compiere la volontà di Dio.
Abramo è solo di fronte a una richiesta assurda di Dio e compie un “salto” nella fede, cioè sceglie di obbedire a Dio, anche se questo atto di obbedienza contraddice un imperativo morale e, in generale, il senso comune.
Abramo è il singolo che crede quia absurdum[15], cioè che crede, come già sosteneva Tertulliano, indipendentemente da qualsiasi motivazione razionale.
(La terza parte è stata pubblicata sabato 11 gennaio. La seconda puntata sull’Esistenzialismo segue sabato 25 gennaio)
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NOTE
[1] “Se io dovessi domandare un epitaffio per la mia tomba , non chiederei che : “quel Singolo”, anche se ora questa categoria non è capita. Lo sarà in seguito” (S. Kierkegaard, Il Diario, citato in M. Fazio, Un sentiero nel bosco. Guida al pensiero di Kierkegaard, Armando, Roma 2000, p. 58).
[2] Cfr. E. Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari 2000, p.383.
[3] Cartesio, Discorso sul metodo, in G. Brianese, Il “Discorso sul metodo” di Cartesio e il problema del metodo nel XVII secolo, Paravia, Torino 1992, p.77.
Cartesio dimostra a priori l’esistenza di Dio anche argomentando che in lui, come in ogni essere umano, è presente “l’idea di un essere più perfetto di me”, che non può derivare da lui che è imperfetto, né dal nulla (ex nihilo nihil), “così rimaneva solo che fosse stata posta in me da una natura veramente più perfetta di quello che io fossi, anzi avente in sé tutte le perfezioni di cui potevo avere qualche idea, cioè, per dirla in una parola, che fosse Dio” (Idem, Discorso sul metodo, cit., p. 75).
Un’ulteriore dimostrazione dell’esistenza di Dio viene fornita dal filosofo, partendo dall’idea di perfezione presente nella sua anima. Se essa fosse causata da lui “avrei potuto darmi – scrive Cartesio – tutto il sovrappiù che sapevo mancarmi e, in tal modo, essere anch’io infinito, eterno, immutabile, onnisciente, onnipotente, possedere insomma tutte le perfezioni che potevo notare in Dio” (ibidem, p. 76), la causa di questa idea era quindi colui che possedeva queste perfezioni: Dio (cfr. ibidem).
[4] La critica mossa da Tommaso alla prova a priori di Sant’Anselmo è valida anche nei confronti delle argomentazioni di Cartesio. Dall’idea di un essere di cui non si può pensare il maggiore non si può inferire la sua esistenza, perché è un indebito passaggio dall’ordine logico-ideale a quello reale. Scrive Tommaso:
“Posto che ognuno intenda che con questo nome Dio è significato […] ciò che è tale che nulla di più grande può essere concepito, non ne segue per ciò che si intenda che la cosa significata da questo nome sia nella natura, ma soltanto che è nell’apprensione dell’intelletto” (San Tommaso d’Aquino, Somma Teologica, I, q. 1, a. 1).
[5] S. Kierkegaard, Diario, a cura di C. Fabro, Biblioteca Universale Rizzoli, Brescia 1975, p. 218.
[6] Ibidem, p. 217.
[7] S. Kierkegaard, La malattia mortale. Saggio di psicologia cristiana per edificazione e risveglio di Anti-Climacus, Introduzione di R. Cantoni, Newton Compton Editori, Roma 1995, p. 87.
[8] Ibidem, p. 86.
[9] S. Kierkegaard, Briciole di filosofia e Postilla non scientifica, a cura di C. Fabro, vol. I, Zanichelli, Bologna 1972, p.323.
[10] Kierkegaard fu un protestante sui generis, perché come scrive Fabro, “criticò a fondo il protestantesimo, e lo stesso Lutero, come ribellione al Vangelo e sconfessò il monaco ribelle per aver dichiarato «lettera di paglia» lo scritto di un apostolo (san Giacomo)” (C. Fabro, Introduzione, in S. Kierkegaard, Pensieri che feriscono alle spalle, Edizioni Messaggero di Padova, Padova 1982, p. 22).
[11] S. Kierkegaard S., Il concetto dell’angoscia, Sansoni, Firenze 1952, p.92.</p>
[12] Le opere, scritte nel 1843, in cui vengono trattate in modo tematico le problematiche relative allo stadio estetico, etico e religioso sono, rispettivamente: Diario di un seduttore, Aut-Aut, Timore e tremore.
[13] S. Kierkegaard, Gli stadi erotici immediati, ovvero il musicale-erotico, in Enten-Eller, vol. I, a cura di A. Cortese, Adelphi, Milano 1976, p.172.
[14] Ibidem, p. 161.
[15] In merito alla formula “credo quia absurdum” Benedetto XVI ha affermato:
“La tradizione cattolica ha sin dall’inizio rigettato il fideismo, che è la volontà di credere contro la ragione.
‘Credo quia absurdum’ (credo perché è assurdo) non è formula che interpreti la fede cattolica. […]Dio, infatti, non è assurdo, semmai è mistero. […]Il mistero, a sua volta, non è irrazionale, ma sovrabbondanza di senso, di significato, di verità. Se, guardando al mistero, la ragione vede buio, non è perché nel mistero non ci sia luce, ma piuttosto perché ce n’è troppa. Così come quando gli occhi dell’uomo si dirigono direttamente al sole per guardarlo, vedono solo tenebra; ma chi direbbe che il sole non è luminoso?; anzi, è la fonte della luce. […]
E’ falso il pregiudizio di certi pensatori moderni, secondo i quali la ragione umana verrebbe come bloccata dai dogmi della fede. E’ vero esattamente il contrario, come i grandi maestri della tradizione cattolica hanno dimostrato” (Benedetto XVI, Udienza generale, Aula Paolo VI, Città del Vaticano 21 novembre 2012).