C’è un fuoco che arde negli occhi di un campione. È quel fuoco che nasce dal profondo, si alimenta con la fatica degli allenamenti e sprigiona la forza necessaria per affrontare ogni sfida. Necessaria, nel caso di un pugile, a saper incassare i colpi dell’avversario, a tener duro, a non cedere, fin quando non si colpisce al posto giusto, nel momento giusto. Una sorta di forza tranquilla.
Di quella che ha permesso a Vincenzo Cantatore, 42 anni di cui la maggior parte passati sul ring, di inanellare una serie di grandi successi. Resta indimenticabile il titolo di campione europeo dei massimi leggeri, conquistato in uno scenario da cartolina, al Colosseo, laddove si combatteva nell’antica Roma.
È proprio in una storica palestra della Capitale, l’Indomita, che Vincenzo, ancora bambino, inizia a tirare pugni. Eppure non era il suo sport preferito. “Fino a dodici anni ho giocato a calcio”. Ma poi, complice una cattiva pagella scolastica, i genitori gli impediscono di frequentare gli allenamenti. Abbandona così il rettangolo verde, quando ricomincia a fare sport decide di indossare i guantoni, inizialmente con il solo intento di irrobustire un po’ un fisico ancora gracile.
La passione per il pugilato subentra però gradatamente, con il tempo. “Ho cominciato a riconoscere la gioia negli occhi di mio padre nel vedere che mi dedicavo al suo sport preferito, nel vedermi vincere”. È questo lo sprone che consente a Vincenzo di andare avanti, di affrontare sacrifici fino a diventare un professionista della noble art.
“Ho avuto la fortuna di avere un grande maestro, che mi ha insegnato prima di tutto a difendermi, e poi a picchiare. Perché a picchiare sono buoni tutti, ma a difendere no”. Quel maestro si chiama Carmelo Farris, un uomo “con dei valori, che ha saputo trasmettermeli”. E che sono stati indispensabili per arrivare a certi livelli.
Soprattutto, sono stati indispensabili per fare delle scelte una volta “coronati i sogni di quando ero bambino”. Nel 2007, racconta Vincenzo, “avevo conquistato titoli, fama e attenzione mediatica”. È così che “ho pensato di convogliare quel tanto che avevo verso chi ne aveva bisogno”. Uno slancio di generosità che nasce a cena, “parlando delle carceri con un amico magistrato”.
In quell’occasione a Vincenzo viene un’idea: portare il pugilato dietro le sbarre, per trasmettere valori a chi ha avuto una vita sregolata. Così si reca al Ministero di Giustizia e, benché accolto da un filo di scetticismo, riceve l’approvazione per lanciare il suo progetto.
“Uno sport duro è proprio ciò che può respingere il male”. Con questo slogan Vincenzo, nel carcere romano di Rebibbia, raccoglie le sue “più grandi soddisfazioni”. Racconta che in tre anni “ho formato un gruppo di cinquanta persone, ho fatto uscire cinque persone dagli psicofarmaci, ho ridato fiducia nei propri mezzi a tanti ragazzi, ho aiutato a sapersi rialzare. E poi ho insegnato il rispetto”.
Dopo tre anni, finito questo proficuo ciclo di lavoro con i detenuti, che riceve apprezzamenti anche da educatori professionisti, lo slancio di generosità di Vincenzo non si esaurisce. Inizia a frequentare gli ospedali, il Gemelli e il Bambino Gesù, dove regala guantoni, giocattoli e soprattutto sorrisi ai bambini degenti.
Quello dell’ex pugile è un entusiasmo tracimante, alimentato dalla gioia dell’altruismo. Così si avvicina anche a Villa Letizia, una comunità terapeutica e socio-riabilitativa per adolescenti e ragazzi con disturbi psichici. Un’occasione “per poter trasmettere a questi giovani i valori che gli sono mancati nelle famiglie”. La struttura sportiva, tuttavia, è molto limitata; mancano molti attrezzi e l’attività si svolge in uno stanzone “che non ha nulla del fascino di una palestra”.
Per questo oggi Vincenzo si sta adoperando con molto impegno per individuare un luogo più adatto dove far proseguire questa sua attitudine verso chi ne ha bisogno. Un luogo aperto a tutti, non solo al gruppo di Villa Letizia, “un luogo in cui i giovani possano riscattarsi da una società sempre più individualistica”. Questo progetto è la nuova sfida di Vincenzo Cantatore, il campione che è sceso dal ring ma che ha ancora il fuoco che arde negli occhi.