Il Monastero di Decani, dove affondano le radici identitarie dei serbi

Padre Savo Janjic, Igumeno del monastero, racconta la situazione del Kosovo di oggi, il rapporto con la fede dei serbi kosovari e i preparativi del Natale ortodosso, che cade il 7 gennaio

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Un sinistro sibilo risuona ancora nelle orecchie dei serbi del Kosovo. Correva l’anno 1999, dapprima arrivarono le bombe cosiddette “intelligenti”, sganciate dai caccia Nato durante una guerra che chiamarla umanitaria è un improperio, e poi, nel 2004, le rappresaglie degli estremisti albanesi dell’Uck, i quali uccisero, dissacrarono cimiteri e distrussero più di cento chiese ortodosse, gioielli d’arte cristiana soppressi sotto gli occhi distratti dell’Europa e nell’ignavia dei contingenti di pace.

Scrisse in quei giorni sulle colonne del Corriere della Sera Massimo Cacciari: “Dove sono gli intellettuali italiani che hanno difeso i Budda afghani? Perché non spendono una parola per il martirio delle chiese e dei monasteri del Kosovo?”.

Oggi, in questa regione che prende il nome dalla località di Kosovo Polje, teatro della battaglia del 1389 in cui la resistenza serba impedì l’avanzata nel cuore dei Balcani dell’Impero ottomano, la vita non è facile per i circa 120mila serbi (circa il 5% della popolazione), talvolta vittime di odi mai sopiti e governati da un esecutivo presieduto dall’ex membro dell’Uck Hashim Thaci, noto per le sue attività criminali.

Un rifugio di pace e di accoglienza è il Monastero di Decani, luogo simbolo per gli ortodossi serbi, poiché vi sono custoditi i resti del Santo Re Stefano. Qui il suono che interrompe i lunghi silenzi di solenne raccoglimento è quello delle campane o del simandro, uno strumento di legno a percussione che chiama alla preghiera.

Se oggi è ancora in vita questo centro di spiritualità e capolavoro d’arte medievale lo dobbiamo ai soldati italiani della Kfor, la forza militare Nato istituita per ristabilire l’ordine in Kosovo a seguito della guerra. I venticinque monaci che vi risiedono non mancano occasione per rivolgergli riconoscenza.

Ce lo conferma padre Savo Janjic, Igumeno del monastero (ossia l’Abate, nella tradizione latina). “La difesa del Monastero – spiega a ZENIT – è stato l’atto più significativo della presenza del vostro esercito in terra kosovara. Impedire la distruzione di un patrimonio mondiale dell’umanità, qual è il Monastero di Decani, consegnandone la memoria ai posteri, oltre a valere la medaglia di San Sava (un riconoscimento della Chiesa Ortodossa di Serbia, ndr) conferita all’Esercito italiano, ha fissato un legame di gratitudine con il vostro Paese che non potremo mai dimenticare”.

Quello tra l’Italia e questo luogo è un rapporto antico. “L’architetto della chiesa del nostro monastero fu italiano per studi e formazione, il francescano cattolico Fra Vito da Kotor, e nel corso di quindici anni di contatti con il vostro esercito anche il nostro sentire si è lentamente modificato. Molti confratelli sono italofoni, la nostra tavola ospita con piacere pasta e pizza, il nostro confratello che si occupa di vino ha avuto tra le proprie ispirazioni la Toscana; l’Italia è per ciascuno di noi, un luogo che sentiamo vicino”.

E poi, durante le celebrazioni importanti, decine di militari italiani affollano la chiesa di Decani, un segno che a parere di padre Sava testimonia “una fratellanza d’animo tra il sentimento italiano e quello serbo, una sorta di comune spirito mediterraneo che anima i due popoli”.

Ma è anche segno di una situazione che, seppur più distesa rispetto al 2004, all’anno in cui in una sola notte oltre cento luoghi di culto, tra chiese e monasteri, furono distrutti “da una cieca violenza di carattere nazionalistico esercitata da esaltati estremisti kosovaro-albanesi”, non è tranquilla.

“La sensazione che noi percepiamo – racconta padre Sava – è quella di un fuoco che cova sotto le ceneri, viste le condizioni economiche e culturali disastrose in cui il popolo che abita questa regione è costretto a vivere. Additare le nostre comunità quali nemici da abbattere o evacuare per distogliere l’attenzione dei più dai problemi concreti, quali corruzione, malaffare, criminalità diffusa e traffici internazionali, potrebbe essere una tentazione ineludibile da parte di chi trae giovamento da queste attività illegali”. È per questo che padre Sava riterrebbe “oltremodo colpevole rinunciare alla presenza della missione Nato Kfor, a guida italiana”. Una presenza che negli ultimi anni è diminuita, passando dalle 1.500 unità alle attuali 570, ma che continua a risultare determinante quale “elemento di pacificazione ed educazione”.

Un ruolo che passa anche e soprattutto per la difesa del Monastero di Decani, luogo a cui i fedeli si rivolgono “nei momenti di difficoltà spirituale e materiale, certi di trovare un supporto, una disposizione all’ascolto e alla comprensione”.

A questo punto chiedo a padre Sava quanto abbia contribuito la fede a tenere unito il popolo serbo del Kosovo nel corso di una storia che ha offerto capitoli spesso tragici. Mi risponde che “a differenza che in Occidente, nell’Oriente d’Europa la fede ha rappresentato un elemento distintivo importante. Ritrovarsi insieme, uniti nella preghiera così come nella supplica, ha significato rafforzare le proprie radici identitarie, senza mai scadere in un nazionalismo secolare”. Per rafforzare quest’ultimo concetto, padre Sava cita una frase del religioso ortodosso Seraphim Rose: “La nostra patria è il cielo”.

Parlare di radici con un monaco serbo, Igumeno di Decani, non può che far scaturire un altro tema. “Il legame che unisce il popolo serbo al Kosovo e Metohija è qualcosa di complesso da spiegare; molti storici parlano del Kosmet (abbreviazione di Kosovo e Metohija, ndr) come del cordone ombelicale che lega la Serbia alla propria memoria, alla coscienza di se. Qualcuno si spinge a fare un parallelismo con la Terra Santa”.

Del resto, prosegue padre Sava, “in questi luoghi ha avuto origine la nostra storia e si conservano i tesori artistici dei Nemanjic, il Kosmet è il cuore della nostra spiritualità e la bellezza del nostro ingegno. Come sovente ripete un caro amico del monastero, il prof. Valentino Pace dell’Università di Udine, ‘Kosovo e Metohija è la Toscana dei Balcani’, con tutti i parallelismi possibili di arte e fede tra le due regioni”.

Il Monastero di Decani è oggi anche meta di visitatori, per loro c’è sempre un bicchiere di rakija (una grappa tipica) pronto ad accoglierli come segno di benvenuto da parte di questi instancabili monaci. Ci racconta padre Sava: “Nel nostro monastero produciamo formaggio, miele, vino, nel rispetto rigoroso delle migliori norme che tutelano la salute del consumatore e la continuità della tradizione. Abbiamo una trentina di mucche, un centinaio di pecore e altrettante capre, più di seicento sono le famiglie di api che producono il nostro miele”.

Ma oltre ai semplici visitatori, ci sono anche tanti volontari, i quali – come ci spiega padre Sava – si prodigano per aiutare i poveri delle enclavi serbe della regione. “Io stesso – racconta – ho l’onore di essere Vice Presidente dell’Associazione italiana Amici di Decani (www.amicididecani.it). Le azioni solidali di quest’associazione come delle tante altre che lavorano in Kosmet – la francese Solidarite Kosovo, l’americana Decani Monastery Relief Fund – contribuiscono ad alleviare la sofferenza di una popolazione stremata dalla povertà e dalle difficoltà quotidiane. Il supporto che riceviamo da queste organizzazioni è fondamentale nella nostra opera di carità”.

In questi giorni a Decani c’è un gran fermento spirituale, è un periodo d’avvento, il Natale infatti è alle porte. Gli ortodossi lo festeggiano il 7 gennaio poiché la loro Chiesa segue il calendario giuliano, riformato a Roma da papa Gregorio XIII nel 1582. Padre Sava spiega che “la differenza tra i due calendari, per semplificare, consiste in 13 giorni, quindi per chi segue il calendario giuliano il 25 dicembre cade nel giorno del 7 gennaio del calendario gr
egoriano”.

Concludiamo la nostra conversazione chiedendogli come si stanno svolgendo i preparativi al Natale, segnati da un periodo di digiuno (astinenza dal consumare carni, uova e latticini, mentre in monastero la carne non si consuma mai). Per prima cosa, indica padre Sava, “ci si dispone l’animo al mistero del grande amore di Cristo che ha voluto farsi Uomo tra le proprie creature”.

“All’alba della vigilia si taglia il Badnjak, una quercia scelta sulle vicine montagne, la si abbatte a colpi d’ascia, cantando preghiere e seminandone altre dodici per ringraziare. Al fuoco generoso del Badnjak si cucinerà la cena di vigilia e le fronde saranno beneauguranti per il resto dell’anno”.

“La chiesa si cospargerà di paglia, al ricordo che Nostro Signore decise di essere Umile tra gli umili nascendo in una grotta, e verrà celebrata una Divina Liturgia Solenne. All’antico augurio di Hristos se rodi (Cristo è nato), il fedele risponderà Vaistinu se rodi (È veramente nato)”.

Padre Sava Janjic mi saluta affettuosamente e mi rivolge gli auguri pronunciando proprio questa frase: “Hristos se Rodi”. Già, è nato. Al freddo e al gelo. E in una famiglia povera e profuga. Proprio come tante famiglie di serbi del Kosovo.

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Federico Cenci

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