Costretti ad assistere ai bulldozer che devastano la loro abitazione, dopo esser stati cacciati via alle 5 di mattina dai soldati, che gli avevano anche sequestrato il cellulare in modo da non poter avvertire nessuno. È quanto è accaduto lo scorso 28 ottobre alla famiglia israeliana Salameh Abu Tarbush, composta da 14 persone, residente ormai da diversi anni in una casa di proprietà del Patriarcato Latino di Gerusalemme dal 1967, in prossimità del checkpoint che separa Gerusalemme da Betlemme.
L’abitazione è stata letteralmente distrutta dai bulldozer della municipalità gerosolmitana, scortati e “difesi” dai soldati dell’esercito israeliano. “Pur sapendo benissimo che la casa era di nostra proprietà nessuno ci ha avvertito di questo gesto folle ed unilaterale. Questa volta non possiamo fare silenzio di fronte a questa ingiustizia” ha dichiarato mons. Fouad Twal, il patriarca latino di Gerusalemme, il quale ha inviato una lettera al ministro degli Interni israeliano Gideon Sa’ar per protestare contro questo atto che la Chiesa cattolica locale ha definito “illegale” e “senza precedenti”.
Il patriarca inoltre ha visitato ieri pomeriggio il luogo della demolizione, accompagnato dai vescovi William Shomali e Giacinto Boulos Marcuzzo, insieme a un gruppo di sacerdoti e consulenti legali del patriarcato latino. Con loro anche diversi consoli di Paesi stranieri, tra cui quelli di Italia e Belgio, e numerosi gruppi di preti e laici. Come riferito dall’agenzia Fides, mons. Twal ha condannato vigorosamente l’accaduto dicendo: “Non c’è giustificazione alla demolizione, e quando la municipalità di Gerusalemme e il governo di Israele ordinano demolizioni e cacciano le persone dalla proprie case, queste azioni alimentano odio e minano il futuro di pace”.
“Noi siamo i legittimi proprietari – ha aggiunto il presule – e voi sentirete la nostra voce davanti a tutti i governi del mondo, intraprenderemo azioni legali davanti alle Corti competenti per cancellare questa ingiustizia, ristabilire la giustizia e ricostruire questa casa”. La famiglia Salameh Abu Tarbush ha ora trovato ospitalità in alcune tende fornite dalla Croce Rossa.