Riprendiamo il testo dell’editoriale firmato da mons. Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, pubblicato sul quotidiano “Il Sole 24 Ore” di domenica 3 di novembre 2013, pp. 1 e 16.
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Questi giorni d’inizio Novembre, specialmente dedicati alla memoria di chi non è più fra noi, ci hanno inevitabilmente ricordato un tratto costitutivo della nostra condizione umana, la sua caducità. Martin Heidegger ne parlava come del nostro essere “gettati verso la morte”, e rifletteva: “La morte non è affatto un mancare ultimo… essa è, prima di tutto, un’imminenza che sovrasta”. Con la morte tutti dobbiamo fare i conti, anche se volessimo illuderci che non c’è! È per questo che la vita risulta tanto spesso impastata di malinconia e la sottile striscia di terra, su cui poggiano i nostri piedi, appare fasciata dall’abisso del nulla. Da questa vertigine scaturiscono tanto la situazione emotiva dell’angoscia, così diffusamente umana, quanto quella ripulsa del nulla che suscita, come per contraccolpo, la forza del domandare. È così che il pensiero nasce dalla morte: “Dalla morte, dal timore della morte – afferma Franz Rosenzweig – prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto”. Eppure, nella modernità occidentale e in larga parte fino ai nostri giorni la morte sembra aver conosciuto un oblio. L’ottimismo della ragione adulta, dall’Illuminismo in poi, aveva esorcizzato la morte, relegandola a semplice momento di passaggio nel processo totale dello Spirito. Per l’uomo emancipato della modernità tutto ciò che è notte deve cedere il posto alla luce della ragione. Il mito moderno del progresso svuotava la morte della sua tragicità, perché ne faceva una tappa marginale della storia dell’individuo totalmente assimilato alla causa, sacrificato al trionfo dell’idea. Quest’“eclissi della morte” è culminata nella figura della “morte rovesciata”, espulsa dallo svolgersi della vita, che sembra non sopportare le interruzioni e i silenzi. La morte, quando non può esser taciuta, viene trasformata in spettacolo, in modo che ne sia esorcizzato il pungolo doloroso. È il trionfo della maschera a scapito della verità: scompaiono i segni del lutto; la rassicurazione evasiva e consolatoria sembra averla vinta su tutti i fronti rispetto alla serietà tragica dell’interruzione senza riparo. Eppure, nelle inquietudini del nostro presente, pare profilarsi una “nostalgia di perfetta e consumata giustizia” (Max Horkheimer), una sorta di ricerca del senso perduto, ultimo e più forte della morte. Non si tratta di un’operazione soltanto emotiva, ma di uno sforzo di ritrovare il senso al di là del naufragio: “restituer la mort” (Ghislain Lafont) diventa un compito, che ci sfida tutti.
In questa ripresa della domanda sulla morte, trova nuovo spazio anche l’interrogativo sulla vita e il suo oltre: la morte è il “vallo estremo” o è la sentinella del futuro assoluto, decisivo per le scelte del vivere, anche se non deducibile dal nostro presente? L’interrogativo compendia l’enigma della condizione umana. La fede cristiana, che ha plasmato le culture dell’Occidente e non solo esse, pone dinanzi a quest’enigma un annuncio paradossale: Dio ha fatto sua la morte per dare a noi la vita. C’è una morte, in cui si è consumata la morte della morte: è il morire del Figlio di Dio nella tenebra del Venerdì Santo e nella luce del Suo risorgere alla vita. Nell’evento della morte in Dio avvenuta sulla Croce è rivelato agli occhi della fede il senso ultimo del vivere e del morire umano. Ad esso si volge la ricerca di una via, che faccia non solo della vita il cammino responsabile dell’imparare a morire, ma anche della morte il “dies natalis”, la porta misteriosa del nascere al di là della vita. Un pensatore del calibro di Hans Georg Gadamer ha potuto perciò affermare: “Che Dio abbia fatto sua la morte è quanto di più grande la mente umana abbia mai concepito, e questo le è stato donato”. L’uscita di Dio da sé, l’“exitus a Deo” del Figlio venuto nella carne, culmina nell’evento della Sua morte, rivelata nella sua profondità abissale dall’altra “trasgressione” divina, la resurrezione, il “reditus ad Deum”, in cui la morte è stata ingoiata per la vittoria (cf. 1 Cor 15,54). Fra queste due soglie, che spezzano il cerchio della vita chiusa nel silenzio del nulla, la morte del Figlio si presenta come l’evento al tempo stesso di un supremo abbandono e di una comunione suprema: nel supremo abbandono l’Eterno ha fatto sua l’esperienza della caducità dell’esistere e l’ha assunta in una comunione più grande, quella per la quale il Dio Crocifisso si abbandona a Colui che l’abbandona. La Croce rivela così la possibilità di vivere la lontananza più alta come profondissima vicinanza: “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito” (Lc 23,46). Morire in Dio diventa l’evento per il quale la persona, consegnata al supremo abbandono, accetta con Cristo e per Lui di vivere la morte come offerta totale di sé, in un atto di povertà e di obbedienza pura: morire è “abbandonarsi” nel seno di Dio, lasciando che tutto si trasfiguri in Colui che ci accoglie. Lo esprime con rara efficacia la parola poetica: “Portami via per mano ad occhi chiusi / senza un addio che mi trattenga ancora / tra quanti amai, tra le piccole cose / che mi fecero vivo. / Non credevo, Signore, tanto profondo fosse / questo sfiorarsi d’ombre, questo lieve / alitarsi la vita nello specchio / fragile di uno sguardo, / né pensavo che il mondo / divenisse, abbuiando, così acceso / di impensate bellezze” (Renzo Barsacchi, Le notti di Nicodemo). L’audacia divina rende possibile la suprema trasgressione dell’uomo: la vittoria sulla morte. Una vittoria che, certo, resta immersa nel silenzio e nell’oscurità della fede, e che tuttavia apre all’esperienza di un possibile, impossibile amore, fondato sul rapporto con il Trascendente, sul Suo eterno e fedele venire a ciascuno, chiamandolo a sua volta ad andare verso di Lui nella vita, come nella morte. Affacciarsi su quest’ultima sponda equivale a poter trasgredire la soglia in Dio e con Lui. Una soglia che diventa misura di opere e giorni, in cui la morte sia vinta grazie a sempre nuove scelte d’amore. Una sfida per tutti. Una possibile promessa, su cui vale la pena di riflettere insieme, credenti e non credenti, per cogliere in tutta la sua radicalità la dignità della vita personale, senza pregiudizi e senza alibi, liberi dalla paura.