"Ogni Zaccheo risuscitato può annunciare l'amore"

Commento al Vangelo della XXXI Domenica del Tempo Ordinario. Anno C

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Per Zaccheo l’”Arci-pubblicano”, arci-peccatore, “ricco” e “perduto”, quello fu un giorno speciale. Aveva sentito il suono dello Shofar, la tromba del gran Giorno del Giudizio che inaugurava i dieci giorni del pentimento, nei quali ogni ebreo era chiamato ad andare a casa di chi aveva offeso per riconciliarsi con lui, preparandosi così a Yom Kippur, il Giorno dell’espiazione. Ed era inquieto, come sempre in quei giorni; aveva “frodato e rubato” tanto a molti suoi fratelli tradendoli con gli invasori romani; lo disprezzavano e sfuggivano, ma proprio non riusciva a liberarsi da quella vita.

Quel giorno però, Gerico gli appariva strana, piena di euforia e gioia, nonostante ancora non fossero spuntate le prime stelle che chiudevano il Giorno dell’Espiazione. Non riusciva a collegare la guarigione del cieco sulla porta della sua città, e quel frastuono con quei giorni che avrebbero dovuto essere austeri di lacrime e pentimento; non poteva riconoscere in Gesù il nuovo Giosuè che, proprio al suono dello Shofar, era entrato in Gerico abbattendo le mura dell’egoismo e dell’orgoglio che impedivano anche a lui d’essere felice, votando allo sterminio tutti i peccati.

E così Zaccheo si era messo a “correre avanti” per “vedere quale fosse” quel Rabbì così speciale, mosso dalla curiosità e da una segreta e ancora acerba speranza, perché sentiva che “doveva passare di là”, nella sua vita. Lo aveva visto “attraversare” la città, ma non poteva sospettare che, così, Gesù compiva quanto prescritto dalla Torah, e che stava cercando proprio lui, per riconciliarlo con Dio e con i suoi fratelli. Non era Zaccheo che avrebbe dovuto chiedere perdono? E invece era il Figlio di Dio che si stava facendo peccato per renderlo “puro”, come il suo nome significava.

Allo stesso modo oggi Gesù cerca ciascuno di noi, schiavi dei nostri peccati, incapaci di perdonare e di chiedere perdono, ma con un desiderio insopprimibile di “vederlo”, chissà che non succeda anche a noi come a quel fratello che si è appena riconciliato con sua moglie.

Ma, come Zaccheo, cerchiamo Gesù ancora con occhi troppo umani; lo crediamo simile a noi, e pensiamo che per incontrarlo dovremmo fare come siamo abituati con gli altri: “salire” sul “sicomoro” per essere diversi dalla “folla”, cambiare in qualche modo la nostra realtà, che ci sembra inadeguata e di inciampo. Ma Gesù ci stupisce con il suo amore che fa proprio del sicomoro così meschino e ridicolo sul quale ci issiamo, il “katalyma”, come la grotta di Betlemme e il Calvario, – nei cui brani è usato lo stesso termine – il “seno” benedetto dove si rinasce a vita nuova.

Gesù, che conosce il nostro nome come quello di Zaccheo, ci guarda e ci dice: “Puro, scendi subito, che devo fermarmi a casa tua”. Non importa se puri non siamo, i suoi occhi intrisi di misericordia ci vedono già così, “anche noi figli di Abramo”, nonostante tutto; per questo “deve” venire, e “fermarsi” a casa nostra per “purificarci” riconciliandoci con Dio e con i fratelli.

E non c’è tempo di mettere ordine, di spazzare, di prepararci all’incontro, perché Lui ci anticipa sempre. Solo la sua Parola può compiere il Giorno del Perdono: “scendi”, convertiti, torna in te, scendi i gradini del cammino che ti conduce al battesimo; “non temere, io ti amo così come sei”. Gesù anche oggi è in ginocchio davanti a ciascuno di noi per lavarci ogni peccato; ci guarda dal basso, “alza lo sguardo” e, se ci chiama a “scendere”, è perché Lui è già lì, dove abbiamo “derubato e frodato”. E’ già accanto a nostro marito che abbiamo giudicato, possiamo chiedergli perdono. E’ già dove si trova nostro cugino che ci ha calunniato, possiamo perdonarlo.

Per amarci il Signore non pone condizioni: la conversione è il frutto del suo amore, perché “l’agire segue sempre l’essere”, e l’essere deve essere prima rinnovato. “E il Signore vide proprio Zaccheo. Fu visto e vide; ma se non fosse stato veduto, non avrebbe visto… Siamo stati veduti perché potessimo vedere; siamo stati amati affinché potessimo amare” (S. Agostino, Discorso 174).

Zaccheo, nevrotico e sempre in lotta con se stesso e con i suoi complessi, si è specchiato in Cristo e ha trovato in Lui la pace, la statura ideale per la sua vita: è tornato ad essere il “figlio di Abramo” che s’era “perduto” a causa del peccato. Zaccheo, “cercato” e “salvato” senza condizioni, vede il suo cuore ormai trasformato gratuitamente in una sorgente d’amore, nonostante le “mormorazioni” e lo “scandalo” che sempre provoca una conversione impensata. Liberato da se stesso si dona senza misura ai fratelli, “poveri” come lui.

Accogliendo “oggi” Cristo che si auto-invita nella nostra casa attraverso la Chiesa che ci ammaestra con la Parola e i sacramenti, possiamo vivere in pienezza ogni giorno come Yom Kippur. Era “necessario e conveniente”, come recita il greco originale, che Cristo si “fermasse” nella casa di Zaccheo, come “oggi” nella nostra vita; era “conveniente” per chi ci è accanto, ai quali poter finalmente restituire “quattro volte tanto” quanto abbiamo sottratto ingiustamente; era “conveniente” per il mondo al quale ogni Zaccheo risuscitato può annunciare l’amore di cui aveva diritto, moltiplicato dalla misericordia di Dio.

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Antonello Iapicca

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