L'Italia è pronta alla "sfida" del welfare civile?

Per un miglioramento della società, il nostro Paese deve investire nel capitale civile, nell’etica della responsabilità che richiede una cittadinanza e dei corpi intermedi attivi e organizzati

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A differenza del “welfare state”, il modello di welfare civile prevede che sia l’intera società, e non solo lo Stato, a farsi carico delle situazioni di bisogno. Questo tipo di welfare si fonda su tre elementi alimentati dalla sussidiarietà verticale, orizzontale e circolare: il primo è quello degli enti pubblici; il secondo quello della business community, ovvero dalle imprese; il terzo, della società civile organizzata, ovvero associazioni, volontariato, cooperative sociali, imprese sociali, ipab, fondazioni.

Le tre sfere sono chiamate a interagire tra loro in modo organico e sistematico nel momento in cui bisogna impostare un piano dei servizi e programmare forme di intervento. I servizi, così, non saranno più impersonali come nel welfare state, perché la società civile organizzata, attraverso il processo di sussidiarietà circolare, conosce e si fa interprete dei bisogni delle persone. L’ente pubblico, da parte sua, garantisce l’universalismo. Il mondo dell’impresa, quindi, può rendere disponibile le risorse, introdurre criteri di efficienza e fornire il know-how.

Il welfare state nasce nel 1939 in Gran Bretagna, dal pensiero di Keynes. Esso accompagnava i cittadini “dalla culla alla bara”, ed è stato una grandissima conquista di civiltà che però nel tempo ha mostrato il suo “tallone d’Achille”. Paesi con economie deboli e alta corruzione, non riescono più, infatti, a sostenere il livello finanziario, a meno che si vada verso un abbassamento della qualità e alla selettività. Inoltre, la burocratizzazione del sistema ha impoverito il welfare state, rendendolo pesante e ingiusto (tante volte si sono tutelati evasori e falsi portatori di bisogni).

In altre parole per rendere la nostra società più giusta bisogna attraversare la storia e passare da una “società chiusa” ad una “società aperta”, in cui prende forma un continuo coordinamento degli ordinamenti che operano nella società civile e degli attori che in essa sono protagonisti. E’ necessario, in tal senso, passare ad una società poliarchica, articolata secondo il principio di sussidiarietà in tutte le sue declinazioni, e regolata di più dalla governance che dal government

Affinchè il welfare civile possa avere un presente ed un futuro è fondamentale il ruolo dello Stato e di una burocrazia al servizio della comunità, ma anche e soprattutto delle imprese, dei cittadini e dei corpi intermedi.

Ma l’Italia, dopo decenni di assistenzialismo patologico, è pronta a questa sfida?
In tal contesto, è molto interessante la ricerca Eurisko presentata al primo Forum italiano della Filantropia, svoltosi qualche giorno fa ai Musei Vaticani, promosso e organizzato da Agenda Sant’Egidio. Dallo studio emerge come le fasce più benestanti del nostro Paese siano meno sensibili alla cultura della “donazione” e registrano il più basso livello di senso civico e di dovere verso la comunità a cui appartengono. Al contrario, il senso civico è molto forte invece nelle fasce “ricche” dei Paesi anglosassoni, dove la maggior parte delle donazioni riguardano realtà locali vicine al donatore.

Ad esempio, l’ammontare delle donazioni in Italia si aggira sui 3,5 miliardi di euro, negli Usa si raggiungono i 303 miliardi di dollari, circa 233 miliardi di euro. Una differenza non giustificabile dalla diversità numerica di popolazione e dalla ricchezza dei Paesi. Difatti la somma complessiva delle donazioni americane è 66 volte maggiore di quella italiana e non esiste alcuna giustificazione a questa ampia forbice. Anche facendo una lettura sinottica tra il prodotto interno lordo, la sproporzione non cambia con il Pil americano che è circa sette volte quello italiano, per cui le nostre donazioni dovrebbero aggirarsi sui 33 miliardi, dieci volte la cifra attuale.

Sempre dalla ricerca emerge la maggiore responsabilità sociale dei benestanti: negli Stati Uniti, donare è un comportamento normale (dona il 97% di coloro che possiedono da uno a cinque milioni di dollari, il 67% di persone con meno di 100 mila dollari di reddito annuale), mentre in Italia è un optional, un comportamento eccezionale. Lo studio evidenzia come questa enorme diversità di capitale civile e cultura della “donazione” non trovi giustificazione nei vantaggi fiscali tra il sistema Italia e USA. Ad esempio, in Italia, le donazioni alle università e agli enti di ricerca scientifica, sono deducibili dal reddito senza alcuna limitazione, mentre negli Stati Uniti sono soggette alla soglia del 50% del reddito, con un vantaggio quindi per l’Italia.

Esiste un limite alla deducibilità delle donazioni in tutti i settori riconosciuti da parte dell’Agenzia delle Entrate, che è del 10% del reddito fino ad un massimo di euro 70.000. Da questi studi emerge chiaramente che l’Italia deve investire maggiormente nel capitale civile, nell’etica della responsabilità che richiede una cittadinanza e dei corpi intermedi protagonisti attivi e responsabili e non soggetti passivi. Solo così è possibile entrare nel welfare civile e liberare le sue energie positive e il conseguente miglioramento sociale.

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Carmine Tabarro

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