Riprendiamo di seguito l’omelia pronunciata ieri sera dal Patriarca di Venezia, monsignor Francesco Moraglia, nella Messa solenne per la Festa di San Michele Arcangelo, celebrata nel Duomo S. Lorenzo.
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Il Vangelo secondo Luca narra la parabola di Lazzaro e dell’uomo ricco che ogni giorno banchettava lautamente, incurante di chi stava alla sua porta privo del necessario per sfamarsi.
Nella parabola Gesù mira, soprattutto, al modo con cui noi ci rapportiamo alla vita presente. Il nostro domani - ovvero l’eternità - dipenderà, strettamente, da quello che “avremo fatto” o “non avremo fatto” nella nostra giornata terrena.
Ne consegue che questa vita terrena riveste per il credente un’importanza maggiore di quella che vi attribuiscono, in genere, i non credenti. Il credente, infatti, riconosce in essa un valore eterno.
Siamo agli antipodi di quanti affermano che credere nell’aldilà è di ostacolo alla nostra vita quotidiana in quanto la fede distrae dall’oggi.
In realtà - e la cosa è del tutto logica - l’oggi, per il credente, si carica di significati e fini maggiori nei confronti di quanti pensano che tutto si chiuda e concluda nel momento terreno. Per il credente tutto ciò che avviene in questa terra si ripercuote nell’eternità, oltre ad incidere l’oggi della vita terrena.
Il lavoro dell’uomo, quindi, non ha solo una forza oggettiva che produce “manufatti” di tipo materiale, intellettuale o spirituale ma, in quanto azione compiuta dal soggetto, riveste un valore di perfezionamento del soggetto stesso. In altre parole, il lavoro arricchisce la persona con “i buoni frutti della natura e della nostra operosità”.
Questo tema è stato trattato dal Concilio Ecumenico Vaticano II, in particolare nella Costituzione Pastorale Gaudium et Spes laddove si parla dell’uomo e della sua peculiare vocazione.
Il Concilio così si esprime: “…l'attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove cresce quel corpo della umanità nuova che già riesce ad offrire una certa prefigurazione, che adombra il mondo nuovo” (Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 39).
Il Concilio, poi, così prosegue: “…benché si debba accuratamente distinguere il progresso terreno dallo sviluppo del regno di Cristo, tuttavia, tale progresso, nella misura in cui può contribuire a meglio ordinare l'umana società, è di grande importanza per il regno di Dio. Ed infatti quei valori, quali la dignità dell'uomo, la comunione fraterna e la libertà, e cioè tutti i buoni frutti della natura e della nostra operosità, dopo che li avremo diffusi sulla terra nello Spirito del Signore e secondo il suo precetto, li ritroveremo poi di nuovo, ma purificati da ogni macchia, illuminati e trasfigurati, allorquando il Cristo rimetterà al Padre il Regno eterno e universale.” (Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 39).
Così la città degli uomini è il luogo o, meglio, il “cantiere” dove, sotto l’impulso della grazia, si costruisce il Regno di Dio. Non si tratta di uno spazio in cui siamo distolti dal fine ultimo ma, piuttosto, in cui il nostro fine ultimo prende forma e si edifica giorno dopo giorno.
L’efficacia eterna del nostro operare terreno non è legata, perciò, al perdurare delle nostre opere che, come ogni realtà umana, sono destinate - prima o poi - a venir meno. Ciò che, invece, rimane - oltre alla carità con cui abbiamo operato - è l’effetto che il lavoro produce su colui che lavora, rendendolo migliore, perfezionandolo.
Non si può, inoltre, dimenticare che il lavoro consente, in modo reale, di partecipare all’opera creativa di Dio e all’azione salvifica di Cristo e, quindi, anche l’attività più materiale e terrena assume un significato che va oltre questa caratteristica (materiale e terrena).
Sul piano sociale il lavoro diventa, così, un “legame” che unisce gli uomini fra loro e un elemento costitutivo della convivenza sociale per cui proprio il lavoro, per una parte rilevante, consente il costituirsi stesso della società.
La polis o città non si può costituire se manca una ricchezza comune prodotta dagli uomini e dalle donne che vi abitano, senza la quale mancano le condizioni per cui si costituisce il consorzio vivente e reale che è fatto di comuni interessi, di un accesso alle fonti di un onesto e giusto sostentamento grazie alle quali si hanno benefici e poi si concorre a produrli ulteriormente.
I beni, così, sono posti di fronte agli uomini e vengono offerti a loro affinché ne possano usufruire e soprattutto la famiglia, nucleo naturale e fondante la società, deve poterne usufruire.
Si apre qui il discorso concernente una saggia politica a favore della persona e della famiglia, iniziando da una più equa politica fiscale attraverso la quale ci si sforza di pervenire a una più equa redistribuzione dei beni.
La stessa proprietà privata, infatti, è un diritto che può trovare la sua attuazione in forme nuove o antiche ma che - attraverso leggi appropriate e rispettose sia della persona-in-relazione sia della giustizia legale, distributiva e commutativa - possono stabilire dei limiti al possesso a partire proprio da una più attenta considerazione del bene comune.
La persona e la famiglia, in particolare, devono tornare ad essere criterio di riferimento nei confronti delle cose e delle istituzioni. È proprio la dignità e la libertà della persona da un verso e la consistenza della famiglia da un altro a richiedere che il maggior numero di uomini e donne possano avere accesso ai beni, facendo in modo che si attui una politica economico-sociale finalizzata a tale scopo.
Una tale politica non comporta - come in passato si riteneva in ambito marxista - una forzata collettivizzazione di massa che soffocava le persone, i corpi intermedi e riconosceva, allo Stato, un potere non solo politico ma anche economico e, di fatto, esclusivo.
Si tratta, piuttosto, di tornare a declinare nelle nostre città, in modo armonico e in vista di un vero bene comune, il principio della destinazione universale dei beni, della proprietà privata, della solidarietà e sussidiarietà; tutti principi portanti della dottrina sociale della Chiesa.
E se è vero che la proprietà privata non può essere ridotta a pura funzione sociale, il bene comune rimane sempre, però, un fine della proprietà privata che in alcun modo va disatteso ma sempre perseguito attraverso la considerazione della destinazione universale dei beni.
Possiamo dire, con Giovanni Paolo II, che la proprietà privata è sottoposta ad un’ipoteca sociale. In tal modo, la proprietà privata rimane tale ma, a certi livelli e/o in determinate condizioni, l’uso che se ne fa dev’essere comune e colui che possiede i beni si può considerare e si deve proporre come amministratore fiduciario dei beni posseduti.
La città, intesa come luogo di convivenza sociale, è in tal modo di tutti e, in essa, ogni uomo e donna sono chiamati ad operare a favore della comune convivenza ma anche a beneficiare dei suoi beni e delle sue ricchezze.
Le parole che seguono sono di papa Bergoglio e, mentre intendono essere il commento a quanto fino ad ora è stato detto, hanno il pregio di guardare al tema della destinazione universale dei beni e del bene comune, ponendosi in una prospettiva più alta, la prospettiva della verità sull’uomo e della persona-in-relazione che, socialmente, richiedono quanto è stato appena detto.
“La città attuale è relativista: tutto [in essa] va bene, e - puntualizza papa Francesco - magari cadiamo anche nella tentazione di ritenere che, per non discriminare e includere tutti, sentiamo come necessaria la rel ativizzazione della verità. Non è così. Il nostro Dio, che vive nella città e si coinvolge nella vita quotidiana, non discrimina né relativizza. La sua verità è quella dell’incontro che scopre i volti, e ogni volto è unico. Includere persone - continua il Papa - con un volto e un nome propri non comporta la relativizzazione dei valori, né la giustificazione di anti-valori; piuttosto il fatto di non discriminare e di non relativizzare implica - questo è il punto che vogliamo sottolineare - la forza di accompagnare dei processi e la pazienza del fermento che aiuta a crescere” (Francesco, Dio nella città, San Paolo, Cinisello Balsamo 2013, p. 42) .
Il bene comune, la destinazione universale dei beni, i principi di solidarietà e sussidiarietà e la persona umana colta all’interno della relazione fondativa della società - la famiglia costituiscono, per riprendere le parole di papa Francesco, “questo sguardo (…) personale e comunitario” che “si traduce in ordine del giorno, segna tempi più lenti di quelli delle cose (accostarsi ad un malato richiede tempo) e genera strutture accoglienti e non escludenti, cosa che richiede anch’essa del tempo” (Francesco, Dio nella città, San Paolo, Cinisello Balsamo 2013, p. 43).
Come segno concreto a conclusione dell’Anno della Fede e nella logica di una città più accogliente che non esclude arbitrariamente nessuno, la Chiesa che è in Venezia si sta impegnando per aprire presto - con la “benedizione” di papa Francesco - una nuova struttura d’accoglienza, mensa e dormitorio, che sorgerà a Marghera a favore delle persone più deboli e a rischio di questa città.