In questi tempi di crisi rischiamo di dimenticarci degli ultimi, vale a dire di coloro che vivono nelle periferie del mondo. Intendiamoci: in Italia la recessione ha già fatto tante vittime. Basti pensare alla lunga schiera di connazionali che si sono tolti la vita per disperazione, avendo perso casa e lavoro. Per non parlare di quegli imprenditori che hanno deciso di farla finita perché strangolati da un impietoso regime fiscale o da una valanga di debiti generati da crediti mai riscossi.
Eppure, non possiamo ignorare gli scenari infuocati fuori dall’Occidente, dove si muore per guerre, inedia e pandemie. Come in Somalia o nella Repubblica Centrafricana, nella regione sudanese del Darfur o in Siria. Ecco perché il tema della cooperazione tra i popoli è sempre di grande attualità, anche se pare scomparso dalle pagine dei giornali. Essa viene intesa, teologicamente, come reciproco scambio di beni materiali e spirituali, affermando il mutuo vantaggio nel cammino per la causa del Regno di Dio. Essendo «scambio», la cooperazione supera ogni unilateralità e accoglie le domande sui bisogni e le offerte di doni da qualsiasi parte giungano, riconoscendo che, anche le Chiese del Vecchio Continente hanno bisogni spirituali e materiali e si arricchiscono delle esperienze di cui sono latrici le Chiese sorelle.
In termini generali, dal punto di vista delle istituzioni pubbliche e dei privati, la cooperazione consiste nelle attività di programmazione, finanziamento e realizzazione di progetti di sviluppo. Si coopera riconoscendo di aver bisogno dell’altra persona, dell’altro popolo, dell’altra Chiesa. Gli stessi migranti in qualche modo soddisfano i loro bisogni e rispondono ai nostri. A questo proposito, è utile rileggere la storia, considerando che fino al 1970 la solidarietà nei confronti dell’allora Terzo Mondo fu riconducibile in gran parte al movimento missionario e a quello dei volontari laici, quest’ultimo ispirato a valori cristiani o filantropici. A parte i tradizionali istituti impegnati nell’evangelizzazione ad gentes, vi fu una graduale proliferazione di associazioni, gruppi e movimenti che testimoniò l’impegno solidaristico dell’Italia ad extra.
Tra le organizzazioni laiche italiane, il precursore fu, nel lontano 1933, l’Ummi (Unione medico missionaria italiana), ancora oggi attiva e presente in diversi Paesi dell’Unione europea e del mondo. Su questo filone, legato in gran parte agli istituti missionari o all’attività delle Chiese locali, comparvero le prime cellule di realtà associative come Mani Tese (1964) o lo Svi (Servizio volontario internazionale) di Brescia (1968-’69) per favorire l’instaurarsi di nuovi rapporti tra i popoli. Solo successivamente la politica ha riconosciuto l’alto valore di questo associazionismo internazionale.
Una cosa è certa: prima ancora che essere questione di progetti, la cooperazione è un rapporto tra persone con interessi comuni. Questi elementi soggettivi costituiscono l’anima dello sviluppo umano e non vanno affatto sottovalutati, considerando che la solidarietà va ben al di là del denaro, delle tecnologie, del management.
Come ebbe a proporre un cartello di riviste missionarie e organizzazioni solidali (Alfazeta, Emmaus Italia, Mani Tese, Missioni Consolata, Missione Oggi, Nigrizia, Solidarietà Internazionale), in un dossier pubblicato nel 1993, la cooperazione deve recuperare la dimensione «popolare».
Questo cartello proponeva di riscoprire il ruolo originario delle Associazioni di solidarietà popolare internazionale (Aspi), invitando così le Ong a cambiare nome: «Che smettano di definirsi organizzazioni non governative, cioè al negativo!».
Un suggerimento attuale, considerando che la solidarietà è l’unica risorsa positiva per vincere ogni genere di recessione.
di Giulio Albanese
(Articolo tratto dal «Messaggero di sant’Antonio» edizione italiana per l’estero di settembre 2013)