La storia della diagnosi prenatale è una storia recente che va di pari passo con lo sviluppo della tecnologia, da una parte, e con le nuove scoperte genetiche, dall’altra. È dagli anni ’70 del XX secolo che la diagnosi prenatale si è diffusa a macchia d’olio fra il grande pubblico, permettendo a molte coppie di conoscere il corredo genetico del proprio figlio molto prima della nascita e spesso anche molto prima dell’insorgenza della malattia stessa.
Il Progetto Genoma Umano ha inciso enormemente sulle possibilità della diagnostica prenatale, modificando da un lato l’offerta delle tecniche diagnostiche prenatali, dall’altro il vissuto della gravidanza per medici e gestanti. Quando il 7 aprile del 2000 fu annunciato il completamento del sequenziamento dell’intero genoma umano, in molti avevano creduto che finalmente si fosse giunti alla possibilità non solo di riconoscere e diagnosticare precocemente molte malattie genetiche ma che soprattutto si sarebbe stati in grado a breve anche di curarle. Sfortunatamente non fu considerato che la mappatura del genoma rappresentava solamente il primo passo di un lunghissimo percorso che era ben lungi dal vedere il traguardo della terapeutizzazione di molte malattie.
Il gap tra diagnosi e terapia si è andato ampliando enormemente lasciando medici e genetisti in una condizione particolare e pericolosa: sapere, conoscere di prossime o future malattie attraverso la diagnosi senza la possibilità di curare l’individuo risultato affetto. Questo “sapere senza poter fare” ha di fatto sollevato numerose questioni etiche e sociali, le quali avrebbero dovuto indurre i soggetti coinvolti – medici, scienziati, genetisti, istituzioni – a porsi delle domande non solo sull’immediato ma anche sulle conseguenze future, sulle ripercussioni a medio e lungo termine che alcune pratiche potevano far emergere.
Sarebbe stato opportuno cioè invocare quel “principio di precauzione” che in altri ambiti è stato non solo evocato ma anche applicato in maniera incondizionata e che invece in ambito genetico prenatale è stato ritenuto limitante la libertà personale delle coppie e la possibilità di autodeterminazione della donna. Il principio di precauzione è una sorta di principio del sospetto rispetto a qualcosa da cui non so se potrò aspettarmi che ne venga qualcosa di buono per me, per la mia generazione e per le generazioni future, e pertanto nel dubbio mi comporto come se da ciò ne dovesse conseguire qualcosa di male per me.
Tale atteggiamento, una volta assunto, avrebbe permesso di riflettere sulle conseguenze che una tecnologia diagnostica come quella genetica può avere sulla natura dell’uomo, sulla dignità che ciascun uomo possiede e sul rapporto di pari e incondizionata libertà fra esseri umani. Non si è capito insomma – come invece fa argutamente riflettere Hans Jonas – che il possesso di una facoltà o di un potere non significa necessariamente il suo impiego. Siamo stati vittime di quello che sempre Jonas chiama “l’inevitabilità dell’applicazione”, ossia l’idea fondamentale della nostra cultura e della nostra società che sia necessaria “una continua applicazione del suo potenziale tecnologico”.
Se ci si fosse invece fermati a riflettere sulle conseguenze che le tecniche di diagnosi prenatale, senza una risposta terapeutica, avrebbero comportato, si sarebbe forse scoperto che esse in questo modo finiscono per essere altamente discriminatorie perché differenziano i soggetti umani in relazione a delle loro caratteristiche fisiche e biologiche, creando un nuovo tipo di razzismo genetico, e riportando in auge tutti i princìpi classici dell’eugenetica passata. Avendo però, grazie alla tecnologia e allo sdoganamento di una serie di pratiche quali l’aborto, anche uno strumento di sistematica eliminazione del soggetto malato.
La diagnosi genetica prenatale, quindi, quando non inserita in una prospettiva di presa in carico e cura del paziente, diventa un facile strumento di rifiuto che si limita a verificare se ciascun soggetto possiede quelle caratteristiche qualitativamente adatte per poter essere accettato. Il rifiuto del soggetto portatore del difetto genetico porta all’eliminazione fisica dello stesso. L’avversione nei confronti della malattia – che entro certi limiti è giusta e comprensibile – finisce per avere il sopravvento e annientare la grandezza dell’essere umano che non viene più accettato nemmeno dalla sua famiglia.
L’individuo, singolo di anima e corpo, e la grandezza e l’incommensurabilità della sua dignità che gli deriva semplicemente dal suo appartenere al genere umano, vengono schiacciati dal piccolo difetto genetico. L’uomo è ridotto alla somma dei suoi geni che non permettono, nella loro visuale microscopica, di guardare nell’uomo la sua grandiosa natura trascendente che travalica i suoi limiti e i suoi difetti fisici.
Questa visione riduzionistica dell’uomo ha inciso profondamente sul vissuto della gravidanza, la quale non riesce più a seguire il suo andamento naturale scandito, nel corso dei nove mesi, dalla trasformazione della donna che protegge il figlio nel suo ventre preparandosi ad accoglierlo. La gravidanza e i suoi tempi, invece, sono stati sottoposti a delle inesorabili scadenze diagnostiche che rappresentano piuttosto delle tappe per il “controllo qualitativo del prodotto”, secondo una logica che prevede il rifiuto e l’eliminazione dell’oggetto se risultato difettoso ai controlli.
Ciò non vuol dire che la diagnosi prenatale di per sé sia eticamente sbagliata. Quando essa infatti è calata in un contesto medico-assistenziale che prevede la presa in carico, la cura, la terapia – quando possibile – e infine l’accompagnamento dei feti affetti da patologie terminali fino alla loro fine naturale, essa si trasforma in ausilio medico e speranza di amore, vita e accoglienza incondizionata per quel determinato feto e per la sua famiglia.
Ad essere rifiutata non è pertanto la diagnosi genetica prenatale in toto, ma solo quella prospettiva che la utilizza per stanare il feto affetto da patologia o malformazione ed eliminarlo al più presto in gravidanza.
Quella che va rifiutata è perciò la riduzione dell’essere umano, a prescindere dal suo stadio di sviluppo, alla somma dei suoi geni, al suo pedigree genetico come si farebbe per qualsiasi animale da allevamento.