Tra i libri in corso di presentazione alla XXXIV edizione del Meeting di Rimini, c’è Il padre. Libertà. Dono (Ares, 2013) di Claudio Risé. Il noto psicoterapeuta ha già all’attivo numerose pubblicazioni sul tema della paternità.
In questo nuovo saggio, Risé ha voluto analizzare un aspetto relativamente poco studiato delle dinamiche psicologiche familiari, ovvero il modo in cui l’autorità paterna, lungi dal reprimere la personalità del figlio, lo aiuta nella conquista del bene prezioso della libertà.
Per conoscere i contenuti de Il padre. Libertà. Dono, ZENIT ha intervistato l’autore.
Prof. Risé, lei ha già all’attivo numerose pubblicazioni sulla figura del padre. In questo nuovo volume quale aspetto particolare viene affrontato?
Claudio Risé: Ho sentito la necessità di accentuare l’aspetto della relazione tra padre e libertà, di presentare il padre come colui che porta l’esperienza della libertà nella vita dei figli. L’ho fatto per rispondere allo stereotipo diffuso secondo il quale il padre rappresenterebbe l’autorità, sarebbe una figura autoritaria. C’è poi l’ostilità di tutto il sistema mediatico, da decenni impegnato in una marginalizzazione della figura del padre, sia come padre terreno che nell’archetipo del Padre celeste. Tuttavia, la auctoritas (da augeo, “accrescere”) ha proprio la funzione di far crescere i figli, di dare spazio alla loro libertà. L’autorità, quindi, non è per il piacere fine a se stesso di esercitarla. Il punto è proprio testimoniare la libertà nella vita dei figli. Don Giussani diceva: “Libertà è la possibilità di decidere, di vedere, di riconoscere, di decidere, del proprio destino, del destino dell’irripetibile persona umana”. Dopo un indispensabile periodo di dipendenza, di fusione, che è quello della formazione del bambino, prima nel ventre materno, poi dopo la nascita, dove la fusione è necessaria per la formazione della personalità, è necessario l’intervento di una figura terza che è proprio quella del padre, che amorosamente si avvicina al bambino per distaccarlo da questa fusione con la madre e portarlo al riconoscimento della propria libertà di avere un proprio destino personale, di doversene prendere la responsabilità, di doverlo difendere dai condizionamenti: questo è il padre e questa è la ragione principale per la quale ho scritto questo libro.
Qual è invece il legame tra padre e dono (il secondo concetto espresso nel titolo)?
Claudio Risé: Il dono del padre è proprio quello di presentare la libertà al figlio. Parlo di dono proprio perché soprattutto oggi, anche concretamente, è l’unico modo che il padre ha per entrare in relazione con il figlio, anche affrontando l’eventuale ostilità della madre a conferire questa libertà al figlio. L’unico modo che il padre ha di raggiungere il figlio è il dono e un dono va fatto in modo discreto, senza aspettarsi un riscontro immediato di gratitudine. Un dono, in quanto tale, non attende conferme. Il processo di formazione dei figli dura molti anni, attraversa molte fasi, incontra molti ostacoli. Quando però il padre presenta i suoi doni, con affetto, discrezione, profondità, quei doni rimarranno, incideranno in qualche modo nella vita dei figli. Tuttavia non bisogna avere fretta, né essere avidi di conferme: anche in questo dobbiamo accettare il mistero della vita umana.
Nel libro, Lei mette in luce la differenza di approccio alla figura paterna tra Freud e Jung. Ritiene che, in particolare le teorie del fondatore della psicanalisi, siano in qualche modo superate?
Claudio Risé: Ritengo che la visione di Freud sia una visione essenzialmente conflittuale del rapporto padre-figlio, in cui il figlio doveva in qualche modo difendersi da una aggressività paterna che avrebbe potuto distruggerlo, quindi attivarsi anche a raccogliere questo conflitto e opporsi. Il mito freudiano di Edipo, visto essenzialmente come conflitto sessuale tra padre e figlio per la conquista della madre, credo che abbia fatto il suo tempo. Tanto più che, già poco tempo dopo la formulazione della teoria, Jung propose una visione diversa in cui il rapporto padre-figlio non era solo ostilità e competizione ma anche un rapporto di amore e di dono; nella disponibilità e nella difesa del figlio verso il padre, c’era un’attesa di amore che il figlio stesso, in qualche modo, con i suoi atti e interventi, talora anche ostili, stimolava a rivelarsi: a volte è un ribelle, a volte è un figlio che cerca un abbraccio paterno. La visione junghiana, poi, a differenza di quella di Freud, recupera l’esperienza religiosa, e della storia dei simboli della relazione padre-figlio (si prenda nei Vangeli, la parabola del Figliol Prodigo e dell’accoglimento che il padre fa di questo figlio che torna a casa). Quest’ultimo è un patrimonio storico di estremo interesse e di estrema ricchezza, che nessuno psicoterapeuta può permettersi di escludere e lasciare fuori dal rapporto terapeutico, altrimenti rischierebbe di fare solo danni.
In questo terzo millennio la figura paterna rischia di rimanere imbrigliata nelle trappole della burocrazia e della biopolitica: con quali conseguenze?
Claudio Risé: All’inizio del millennio, in Inghilterra venne varata una legge inglese che autorizzava la donazione di sperma da donatore incognito. Dieci anni dopo il governo inglese ha richiesto all’autorità di bioetica di poterla modificare, affinché il donatore non debba rimanere incognito. In questo caso vediamo un tentativo di annullamento con un atto burocratico della figura del padre, che poi dieci anni dopo il governo ha dovuto rimangiarsi, perché, nel frattempo, moltissimi bambini, figli di donatore sconosciuto, avevano avuto il bisogno, anche per ragioni sanitarie, di conoscere il padre biologico. È in atto un tentativo di burocratizzare, di far sparire la figura del padre anche dietro una sigla, come avviene nella legge appena varata in Francia sul genitore A e genitore B, un tentativo intellettualistico che cozza sia contro profonde ragioni affettive che si riveleranno dopo, sia contro ragioni biologiche che richiedono che il padre sia visibile e conosciuto. Internet pullula di siti che cercano di mettere in contatto questi figli con i padri e con gli eventuali fratelli, non per semplice curiosità ma per ragioni profonde di identità personale: se tu hai un padre devi sapere chi è, se hai dei fratelli in giro per il mondo, non puoi ignorare tutto questo dietro una visione formalistica e burocratica: devi abbracciare questi fratelli, per sapere chi sei.
Alla luce di quanto abbiamo detto, sembra che in questo inizio millennio, si addensino fitte nubi sulla figura del padre…
Claudio Risé: Le nubi nella storia umana ci sono sempre state e sempre ci saranno. Ci sono stati anche i temporali e i cicloni. La vita di solito ha sempre cacciato la morte, perché la vita vuole continuare, quindi tende a riprodursi e a riprodurre se stessa contro tutti gli attentati che le vengono mossi. Ciò è accaduto fino ad oggi. Io credo che il livello di dolore raggiunto dall’umanità per questo tentativo di soffocamento della vita attraverso formule burocratiche sia altissimo. Pietro Barcellona, che ha avuto la generosità di scrivere la prefazione al mio saggio, in un suo libro scrive: “ci salverà il dolore”. Ciò è profondamente vero. Quando il dolore raggiunge un livello di tale intensità non può che buttare per aria l’insieme delle cose che stanno soffocando la vita: questo è sempre accaduto e credo che accadrà ancora. La vita continuerà, l’umanità continuerà. Continuerà il padre e continuerà la madre perché sono due realtà costitutive della vita e dell’identità umana.