Ministri della parola e non predicatori (Prima parte)

La Costituzione dogmatica “Dei Verbum”

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ROMA, martedì, 16 ottobre 2012 (ZENIT.org).- Riprendiamo la prima parte della relazione tenuta ieri da monsignor Lorenzo Leuzzi, vescovo ausiliare di Roma, al I incontro di formazione per i cappellani universitari e sanitari, svoltosi presso il Seminario Romano Maggiore sul tema “Pastori e maestri della fede teologale”.

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Premessa

Il successo dell’Anno della Fede, da poco iniziato, è largamente ancorato alla comprensione dell’identità del ministero sacerdotale e alla testimonianza dei presbiteri, chiamati ad essere pastori e maestri della fede teologale del popolo di Dio.

Il nostro itinerario di approfondimento del ministero sacerdotale, nell’anno della Fede e del 50° anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II, parte dalla Costituzione dogmatica Dei Verbum.

La Dei Verbum, richiamata frequentemente nel post-concilio per la riscoperta della Sacra Scrittura nella vita della Chiesa e in particolare del presbitero (cf. DV nn. 21 e 24), in realtà è un testo decisivo per il passaggio dal presbitero predicatore al presbitero ministro della Parola.

È infatti nel concetto di divina rivelazione presentata dalla Costituzione che si pongono le basi per una comprensione non alternativa ma nuova, nel senso di una esplicitazione di ciò che era già presente nel ministero sacerdotale preconciliare. Infatti nel concetto di predicazione, nel periodo preconciliare, era già compreso quello di ministero della Parola e, pertanto, non era necessaria tale puntualizzazione, ossia essa poteva restare criptica. Mentre il ministero della Parola, infatti, comprende sempre la predicazione, non è automatico il contrario, ossia che la predicazione comprenda il ministero della Parola.

Infatti, nell’epoca preconciliare, ancora statico-sacrale, la predicazione ha assolto un ruolo di servizio alla trasmissione della fede cristiana adeguato alla situazione storico-culturale, pur correndo il pericolo di offuscare quello del ministero della Parola. Offuscare, ma non eliminare, in quanto il ministero della Parola, come si vedrà, è essenziale per la trasmissione della rivelazione.

Oggi non è più così: la predicazione da sola è ambigua e talvolta può veicolare una fede cristiana non più teologale, ma semplicemente religiosa. La nuova situazione storica, già indicata dalla Gaudium et Spes, rende necessario che la trasmissione della rivelazione cristiana si sviluppi in modo ancora più evidente e più deciso come manifestazione del ministero della Parola.

Come nasce questa esigenza di rendere manifesto e, naturalmente, di incarnare nell’esistenza presbiterale tale passaggio, ossia dall’essere predicatori ad essere ministri della Parola?

Dalla fede religiosa alla fede teologale

La Dei Verbum pone le fondamenta per comprendere tale passaggio puntualizzando la vera natura del Cristianesimo, non paragonabile a nessun’altra esperienza religiosa. Per i Padri conciliari Dio è uscito dal suo silenzio e ha rivelato il suo progetto per l’uomo manifestatosi pienamente in Cristo (“questa rivelazione…. risplende a noi in Cristo” DV n 2). L’iniziativa è di Dio e non è espressione del pensiero umano e nemmeno riducibile ad esso. Certamente Dio ha scelto di entrare nella storia e di assumere la condizione umana, ma non si è mai lasciato condizionare da essa: nessuna realtà umana può racchiudere totalmente la pienezza della vita di Dio.

Affinché tale rivelazione sia credibile o possa meritare “il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà” (DV, n. 5), è necessario che Colui che si rivela non sia frutto del pensiero umano o non si identifichi totalmente con il contenuto della rivelazione storica. In altri termini la realtà di Colui che si rivela non si esaurisce nel contenuto della rivelazione nella storia, altrimenti la rivelazione, pur continuando a meritare l’assenso dell’uomo, rinchiude il suo atto di fede nella generica esperienza religiosa.

In questa prospettiva anche il Cristianesimo può essere rinchiuso nella semplice e originaria esperienza religiosa. Ciò può avvenire (e di fatto avviene) con due modalità.

La prima, promossa dalla ragione teologica, è quella della fede religiosa che propone di credere in un contenuto rivelato trasmesso oralmente o per iscritto e che è già evidente in se stesso, in quanto ha in sé una razionalità che lo giustifica.

La seconda, promossa dalla teologia razionale, è quella che propone di credere che il contenuto della rivelazione coincida o in qualche modo risponda al percorso della ragione umana, per cui l’uomo non può non credere, e il non credere porterebbe l’uomo ad essere fuori dalla razionalità.

Ambedue queste modalità della fede religiosa, che non sono specifiche di quella cristiana ma che possono appartenere ad altre esperienze religiose, sono state sempre presenti nella vita e nel dibattito teologico della Chiesa, senza tuttavia incrinare la fede teologale e restando in qualche modo sempre legate ad essa.

Oggi la situazione è ancora più complessa e, per certi aspetti, drammatica, poiché la fede religiosa può essere non solo teologica, ma anche a-teologica. La società dinamica, nata dalla rivoluzione industriale, nella quale viviamo, sollecita la fede religiosa come esigenza di vita esistenziale. Nella società dinamica nessuno può vivere senza una fede religiosa: si comprende così il sorgere di nuove religioni o di esperienze a-teologiche anche prive di ogni riferimento razionale. La fede cristiana, anche nelle sue modalità religiose, che per tanti secoli non ha sentito il bisogno di definire il limite tra fede religiosa e fede teologale, può essere veicolata da una fede religiosa a-teologica. Si sta realizzando un percorso davvero singolare: dalla fede religiosa, anche cristiana, all’anti-divino e quindi all’ateismo religioso.

Di qui la domanda cruciale: il Cristianesimo genera una fede religiosa o una fede teologale?

La prospettiva della Dei Verbum

Riprendiamo in considerazione il paragrafo 2 della Dei Verbum, in cui si afferma: “Questa economia della rivelazione avviene con eventi e parole (gestis verbisque) intimamente connessi”. Con questa descrizione dell’intima connessione tra eventi e parole, il Concilio considera la rivelazione cristiana come realtà autonoma rispetto all’Autore, cioè a Dio (“Piacque a Dio”, DV n. 1), e nello stesso tempo pone le basi per coinvolgere l’uomo nella sua capacità di essere interlocutore di un tale progetto.

In altri termini la Dei Verbum non annulla Dio per l’uomo e tanto meno l’uomo per Dio; li pone invece come soggetti chiamati a interloquire: il primo nella sua bontà e sapienza, il secondo nella sua libertà.

Nasce così il superamento della fede religiosa per dare spazio alla fede teologale. Ma ciò non è ancora sufficiente per capire l’insegnamento del Concilio.

Anche la fede religiosa, infatti, può essere teologica, ossia può affermare la sua dimensione trascendente, sia per l’autore che per i contenuti. Non è stata forse compresa così la fede cristiana, ossia come fede religiosa che si distingue dalle altre per la sua maggiore trascendenza teologica? Pensiamo alla formazione catechistica preconciliare tutta centrata sui contenuti teologici, sia pure imparati a memoria, e sottovalutata per il mero pregiudizio metodologico!

[La seconda parte della relazione verrà pubblicata mercoledì 17 ottobre]

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ZENIT Staff

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