"La fede, accoglienza di una Parola e di una storia"

Estratto della “Lettera” del patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, per l’apertura diocesana dell’Anno della Fede

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VENEZIA, domenica, 14 ottobre 2012 (ZENIT.org).- Una messa celebrata all’aperto (meteo permettendo), in Piazza San Marco a Venezia, e presieduta dal patriarca monsignor Francesco Moraglia alla presenza dei sacerdoti, dei diaconi, delle persone consacrate e dei fedeli laici provenienti dalle parrocchie, dalle associazioni e dai movimenti ecclesiali del Patriarcato: sarà questo il momento e il “gesto” comunitario per eccellenza che sottolineerà – anche a livello diocesano – l’apertura dell’Anno della Fede indetto e appena inaugurato dal Santo Padre Benedetto XVI. 

In tale circostanza il Patriarca svolgerà, nel corso dell’omelia, un’articolata riflessione sul tema della fede il cui testo – nella sua versione più estesa e integrale – è stato raccolto in una “Lettera” pubblicata dalle Edizioni Cid di Venezia con il titolo “So in chi ho posto la mia fede” (cfr. 2Tm 1,12) – Invito alla fede. Ne anticipiamo qui un estratto.

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Mentre l’Antico Testamento ci consegna come figura paradigmatica della fede Abramo, il Nuovo Testamento ci dona Maria di Nazareth – la madre del Signore – che la cugina Elisabetta proclama beata “perché ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto” (Lc 1,45). Qui assistiamo a una vera e propria novità, a un balzo in avanti, a un progresso sostanziale, perché in Maria – l’Immacolata, Colei che non conosce ombra d’egoismo – c’è finalmente, da parte della creatura, la possibilità del sì totale, il sì completo che prima era inimmaginabile. In Lei, per la prima volta, l’accoglienza della Parola è talmente piena e integrale che la Parola diventa carne umana. L’incarnazione è, infatti, evento escatologico oltre il quale non si può andare; nell’incarnazione, dono totale di Dio, si dà il compiersi della creazione. 

La fede – oltre che fiducia, confidenza e abbandono – è anche accoglienza di una storia; ossia accettazione della persona di Gesù Cristo che ci viene incontro dicendoci ciò che prima non sapevamo e donandoci ciò che prima non avevamo e non eravamo. La fede, quindi, non può identificarsi con la sola fiducia; il gesto umano di chi si affida, infatti, non coincide col puro ripiegamento su se stessi ma comporta piuttosto nuove aperture sul reale. A tale proposito i teologi parlano di fides qua, vale a dire, credere in (la fiducia)ma, anche, di fides quae, ossia credere che (le cose che si credono). Israele non sarà soltanto chiamato a fidarsi e affidarsi a Dio ma ad accettare quello che Dio gli rivelerà e prometterà attraverso gli eventi salvifici della storia.

Nei vangeli sinottici credere vuol dire, soprattutto, porre in evidenza che Gesù è il Messia, l’inviato di Dio. Per gli Atti degli Apostoli, invece,  la fede si lega intimamente all’idea dell’accoglienza del kerigma cristiano che si connota per i caratteri della realtà e della verità. In san Paolo, pistis (fede) indica l’annuncio o messaggio creduto. Talvolta, in alcuni passi, la fede assume un significato che unisce in maniera stretta fra loro i verbi credere, conoscere, professare. Nel quarto vangelo, infine, la fede è affermazione della divinità di Cristo riconosciuto come inviato del Padre per condurci alla vita eterna. Sono le caratteristiche stesse dell’evento cristiano, che si compie nella risurrezione di Cristo – termine ultimo dell’incarnazione -, a dispiegarsi secondo realtà e verità e, in tal modo, qualificano l’atto di fede in termini di professione di fede e conoscenza; tutto questo perché la fede cristiana è risposta ad un evento, al suo realismo, alla sua verità, alla sua conoscibilità.

La risposta del credente a Dio che si rivela – nell’Antico e nel Nuovo Testamento – è una risposta integrale, in cui l’uomo è totalmente coinvolto. A Dio che si rivela sta innanzi l’uomo nella totalità del suo essere – spirito, anima e corpo – e in questa totalità l’uomo è chiamato a rispondere a Dio che si dona. Nell’Antico Testamento il rapportarsi al Dio salvatore, da parte di colui che crede, comporta l’accoglienza libera, responsabile, fiduciosa della Parola che Dio rivolge all’uomo; così la fede si qualifica soprattutto come fiducia, confidenza, abbandono. Nel Nuovo Testamento ciò che è posto in evidenza è l’assenso dato all’annuncio cristiano, anche se questo non significa rinnegare la dimensione “fiduciale” del credere.

L’aspetto che caratterizza il “sì” della fede nel Nuovo Testamento in termini di assenso, ponendo così la fede anche sul versante della conoscenza e facendone un sapere, porta il nostro discorso sui contenuti della fede. L’Anno della Fede, oltre che ricordare il cinquantesimo anniversario dalla solenne inaugurazione del Concilio Ecumenico Vaticano II (11 ottobre 1962), intende anche richiamare, a vent’anni dalla sua promulgazione (11 ottobre 1992), il Catechismo della Chiesa Cattolica. E’ importante che nell’Anno della Fede nella nostra Chiesa – vescovo, parroci, diaconi, persone consacrate, fedeli laici – trovino cordiale accoglienza le quattro grandi Costituzioni conciliari e il Catechismo della Chiesa Cattolica. Sarà, questo, un gesto concreto di recezione e di amore verso il Concilio Vaticano II. Chiedo, quindi, che tale impegno sia assunto da tutti, senza eccezioni, in modo particolare dai parroci e dai loro collaboratori. La piena recezione del Vaticano II chiede, infatti, di promuovere nei nostri cammini formativi, personali e comunitari, il Catechismo della Chiesa Cattolica affinché entri abitualmente nella pastorale ordinaria delle parrocchie, delle comunità pastorali, dei movimenti, delle associazioni e aggregazioni laicali.

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ZENIT Staff

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