di Massimo Introvigne
CITTA’ DEL VATICANO, domenica, 14 ottobre 2012 (ZENIT.org). Il 12 ottobre, ricevendo un gruppo di padri conciliari del Vaticano II ancora viventi, Benedetto XVI ha definito una «grazia» la loro partecipazione, cinquant’anni fa, al Concilio. Il Papa ha colto l’occasione di questa udienza per ritornare ancora su una parola che, «quasi in modo programmatico, ritornava continuamente nei lavori conciliari: la parola “aggiornamento”».
Il Pontefice è ben consapevole che non manca chi si domanda oggi «se quell’espressione non sia stata, forse fin dall’inizio, non del tutto felice». E risponde: «Penso che sulla scelta delle parole si potrebbe discutere per ore e si troverebbero pareri continuamente discordanti, ma sono convinto che l’intuizione che il Beato Giovanni XXIII [1881-1963] compendiò con questa parola sia stata e sia tuttora esatta». Al di là della scelta della parola, forse infelice, l’idea – giusta – di Papa Giovanni era che «il Cristianesimo non deve essere considerato come “qualcosa del passato”, né deve essere vissuto con lo sguardo perennemente rivolto “all’indietro”, perché Gesù Cristo è ieri, oggi e per l’eternità (cfr Eb 13,8). Il Cristianesimo è segnato dalla presenza del Dio eterno, che è entrato nel tempo ed è presente ad ogni tempo, perché ogni tempo sgorga dalla sua potenza creatrice, dal suo eterno “oggi”».
Con una critica neppure troppo velata a un certo tradizionalismo, il Pontefice afferma che non dobbiamo mai vedere il Cristianesimo «come un albero pienamente sviluppatosi dal granello di senape evangelico, che è cresciuto, ha donato i suoi frutti, e un bel giorno invecchia e arriva al tramonto la sua energia vitale», immaginandoci una «tradizione» che sarebbe l’insieme degli insegnamenti della Chiesa fino a una certa data. La tradizione, al contrario, è vivente, e per questo la Chiesa – si può dire, usando questa o un’altra espressione – è in continuo «aggiornamento».
Dunque «questo “aggiornamento” non significa rottura con la tradizione, ma ne esprime la continua vitalità». Contrariamente a quanto sostengono incaute apologie progressiste e lamentele tradizionaliste, l’«aggiornamento», così come realmente lo propose il Vaticano II, «non significa ridurre la fede, abbassandola alla moda dei tempi, al metro di ciò che ci piace, a ciò che piace all’opinione pubblica, ma è il contrario: esattamente come fecero i Padri conciliari, dobbiamo portare l’”oggi” che viviamo alla misura dell’evento cristiano, dobbiamo portare l’”oggi” del nostro tempo nell’”oggi” di Dio».
Così rettamente interpretato, il Papa lo ribadisce, «il Concilio è stato un tempo di grazia in cui lo Spirito Santo ci ha insegnato che la Chiesa, nel suo cammino nella storia, deve sempre parlare all’uomo contemporaneo, ma questo può avvenire solo per la forza di coloro che hanno radici profonde in Dio, si lasciano guidare da Lui e vivono con purezza la propria fede; non viene da chi si adegua al momento che passa, da chi sceglie il cammino più comodo». È, come insegna la Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, al numero 49, la via per questo vero «aggiornamento» è, ultimamente, la santità.
Il Pontefice ha voluto ricordare che «la memoria del passato è preziosa, ma non è mai fine a se stessa. L’Anno della fede che abbiamo iniziato ieri ci suggerisce il modo migliore di ricordare e commemorare il Concilio: concentrarci sul cuore del suo messaggio, che del resto non è altro che il messaggio della fede in Gesù Cristo, unico Salvatore del mondo, proclamata all’uomo del nostro tempo».
Queste parole si ricollegano a quelle pronunciate durante la benedizione impartita, nella serata dell’11 ottobre, ai partecipanti alla fiaccolata per i cinquant’anni del Concilio organizzata dall’Azione Cattolica Italiana. Paragonando la gioia con cui i padri conciliari entravano nel Vaticano II e la gioia della giornata d’inizio dell’Anno della fede, il Papa ha detto che «anche oggi siamo felici, portiamo gioia nel nostro cuore, ma direi una gioia forse più sobria, una gioia umile».
Traendo un bilancio del tutto realistico e privo d’illusioni del cinquantennio post-conciliare, che tiene conto certo della tragedia dei preti pedofili ma anche delle contestazioni al Magistero, il Pontefice ha affermato che «in questi cinquant’anni abbiamo imparato ed esperito che il peccato originale esiste e si traduce, sempre di nuovo, in peccati personali, che possono anche divenire strutture del peccato. Abbiamo visto che nel campo del Signore c’è sempre anche la zizzania. Abbiamo visto che nella rete di Pietro si trovano anche pesci cattivi. Abbiamo visto che la fragilità umana è presente anche nella Chiesa, che la nave della Chiesa sta navigando anche con vento contrario».
E tuttavia il Papa invita a non vedere solo le ombre, a considerare anche le luci: «il fuoco dello Spirito Santo, il fuoco di Cristo non è un fuoco divoratore, distruttivo; è un fuoco silenzioso, è una piccola fiamma di bontà, di bontà e di verità, che trasforma, dà luce e calore». Insieme alla zizzania, non mancano nella Chiesa «carismi di bontà e di carità che illuminano il mondo e sono per noi garanzia della bontà di Dio». In nome della bontà e della carità, Benedetto XVI ha concluso la sua benedizione rievocando una parola famosa di Giovanni XXIII: «Alla fine, oso fare mie le parole indimenticabili di Papa Giovanni: “andate a casa, date un bacio ai bambini e dite che è del Papa”».