SPELLO, sabato, 6 ottobre 2012 (ZENIT.org).- Riportiamo la prima parte dell’intervento di don Antonio Sciortino, direttore di “Famiglia Cristiana”, tenuto al convegno «Carlo Carretto. Le gioie e le speranze dell’uomo di oggi», che si svolto dal 5 al 6 ottobre a Foligno e a Spello.
L’appuntamento è stato promosso dall’Azione cattolica italiana, dalla diocesi di Foligno, dai Piccoli Fratelli di Jesus Caritas e dai Piccoli Fratelli del Vangelo, dall’Istituto per la storia dell’Azione cattolica e del movimento cattolico in Italia “Paolo VI” (Isacem) e dalle amministrazioni territoriali.
Luoghi dei lavori le città di Foligno e Spello, e la “Casa San Girolamo”, il complesso residenziale presso il quale si trova la tomba di Carlo Carretto e che l’Azione cattolica propone a chi intenda fare un’esperienza intensa e fraterna di contemplazione, discernimento e vita spirituale sulle orme di “Fratel Carlo”.
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Quest’anno, l’anniversario della morte di fratel Carlo Carretto (Spello, eremo di San Girolamo, il 4 ottobre del 1988, giorno di san Francesco di cui era un appassionato biografo) cade in un periodo di grandi eventi ecclesiali. A cominciare dal cinquantesimo anniversario del Concilio Vaticano II che fu per la Chiesa una ventata di ottimismo e una “primavera dello Spirito” di cui oggi si sente tanta nostalgia.
L’11 ottobre prossimo, nello stesso giorno in cui ebbe inizio il Vaticano II, comincia l’Anno della fede, voluto da papa Benedetto XVI per riscoprire e rinverdire le nostre radici cristiane, e il Sinodo dei Vescovi che per tutto il mese di ottobre discuteranno sul tema: “La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana”. E non tralasciamo, poi, anche il ventesimo anniversario della pubblicazione del Catechismo della Chiesa cattolica.
Tutte ricorrenze che speriamo non si risolvano in celebrazioni, ma in una seria riflessione sulla situazione della Chiesa nei confronti del mondo e dei problemi degli uomini d’oggi. E in questo, la vita e l’insegnamento di Carlo Carretto avrebbe tanto da dirci. Per lo meno, sarebbe più presente di quanto non siamo oggi noi cattolici nelle vicende del Paese e della società, dove ci distinguiamo per essere afoni, insignificanti o poco incisivi nella costruzione della “città terrena”.
Oggi siamo alle prese con una grave crisi economica, che colpisce duramente le famiglie e i giovani che sono senza un lavoro e un futuro. Ma ancor di più dovrebbe preoccuparci la crisi etica in cui siamo caduti. L’assenza di valori quali l’onestà e il rispetto della legalità. Basta vedere a che cosa assistiamo ogni giorno, con latrocini e furti a danno delle risorse pubbliche. E’ scomparso dall’orizzonte il “bene comune”. Nessuno ne parla più. A vantaggio di una società sempre più egoista e individualista. Dove imperano corruzione e illegalità E dove ognuno è legge a sé stesso ed è bene solo quello che mi avvantaggia e mi conviene. In una società dove quel che conta è apparire, fare soldi (non importa come, anche vendendo la propria dignità e il corpo stesso) e avere successo.
Il degrado etico ha contagiato ogni aspetto della vita sociale. C’è smarrimento e crisi di valori. Per non dire della difficoltà di educare le nuove generazioni e trasmetterela fede. Siamo all’”emergenza educativa”, come l’hanno chiamata i vescovi italiani. Una sfida da affrontare per non perdere le nuove generazioni. Per questo, gli Orientamenti pastorali della Chiesa italiana per il 2010-2020 vertono su questo tema: “Educare alla vita buona del Vangelo”. E i cristiani possono dare una forte iniezione etica per un altro mondo possibile. Con più coraggio e più ottimismo.
Ma non c’è nulla di nuovo sotto il sole. A ogni tempo i suoi affanni, ma anche le speranze e le gioie. Esiste una tavoletta assira del 2800 a C. che dava per imminente la fine del mondo “perché la corruzione e l’insubordinazione sono diventate cose comuni e i figli non obbediscono più ai genitori”. Gioie e speranze hanno sempre alla calcagna timori e angosce. Sta a ciascuno di noi scegliere come orientarsi e comportarsi. Di fronte a un problema possiamo lamentarci e disperarci. Oppure possiamo darci da fare per trovare una soluzione. Un antico proverbio tuareg insegna che la differenza tra il deserto e il giardino non la fa l’acqua, ma l’uomo.
Cinquant’anni fa il Concilio Vaticano II ci indicò una via. E ci suggerì un metodo. Dopo accese discussioni, prevalse l’idea di cominciare la Costituzione sulla Chiesa nel mondo con due vocaboli intessuti di fiducia: “gaudium et spes” (gioie e speranze), piuttosto che con “luctus et angor” (tristezze e angosce). Certo, la Chiesa è attenta a tutto ciò che riguarda l’uomo e l’umanità. Ma con le parole gioie e speranza ha voluto dare un segnale preciso. E prendere posizione. Ha voluto essere “compagna di viaggio degli uomini e delle donne del nostro tempo”, piuttosto che la “cittadella assediata, diffidente di tutto e di tutti”.
Per costruire ci vuolela speranza. Difronte al rischio, oggi ricorrente, di guardare indietro piuttosto che avanti, nonostante la barca della Chiesa sia sballottata dalle onde, bisogna ricordare le parole di Papa Giovanni XXIII, all’inizio del Concilio: “Ci sono quelli che vedono sempre che tutto va male, e invece noi pensiamo che ci siano tante cose valide, positive”.
Partiamo, allora, da lì, dalle prime parole della Gaudium et spes: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono sono le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”. Un’affermazione impegnativa, che assume una rinnovata validità, oggi, in questo 2012, anno delle attese e delle svolte. Anno di crisi economica, ma anche politica, sociale e morale. Non poteva esserci inizio più bello per un documento che desiderava un incontro rinnovato e cordiale con tutta l’umanità.
C’è tuttavia da domandarsi se questa apertura al mondo esiste ancora. O se non siano tornati a formarsi reciproci sospetti. Se la Chiesa, oggi, faccia più fatica di ieri a incontrare una umanità che vive, essa pure, una profonda crisi di identità e di fiducia nel proprio futuro. La Chiesa non può stare a guardare con il distacco di uno spiritualismo disincarnato. Ma deve immergersi nella storia dell’uomo. Deve “sporcarsi” nella condivisione della condizione umana. Altrimenti non è più discepola di Cristo e tradisce il Vangelo. Non può sedersi a parte per ricamare riti, ma i suoi stessi riti devono impastarsi con le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi. “Via quotidiana della Chiesa è l’uomo”, diceva Papa Wojtyla.
Di questa speranza che motiva e alimenta l’impegno cristiano nel mondo, Carlo Carretto è stato un precursore e un profeta. Ha anticipato temi che il Concilio ha trattato. E ha vissuto in modo profetico il dopo Concilio, tempi entusiasmanti e difficili al tempo stesso, perché il rinnovamento è sempre difficile. Con la sua testimonianza e la sua parola ci ha sollecitato a non dimenticare che “la tensione verso l’Assoluto di Dio deve concludersi nella tensione verso i fratelli”. “La Chiesa”, diceva, “questa realtà umana e mistica, che vive in ciascuno di noi, deve essere contemporaneamente nel deserto della preghiera e nel deserto dell’impegno nella città”.
Questa è la parola profetica che fratel Carlo Carretto ci ha lasciato in eredità. Una parola che siamo chiamati a tradurre con entusiasmo sincero, per non correre il rischio di seppellire nella tomba della nostalgia la testimonianza profetica di un uomo che ha avuto l’audacia di dire: “Ho trovato e scoperto che la Chiesa non è separata dal mondo: è l’anima
del mondo, la coscienza del mondo, il lievito del mondo”.
[La seconda parte verrà pubblicata domenica 7 ottobre]