"È la fede della Chiesa che rende presente Cristo dentro la storia"

Omelia del cardinale Caffarra nella solennità di San Petronio

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BOLOGNA, venerdì, 5 ottobre 2012 (ZENIT.org) – Riprendiamo di seguito il testo dell’omelia tenuta ieri dal cardinale arcivescovo di Bologna, Carlo Caffarra, nella Solennità di San Petronio, patrono della Città e della Diocesi.

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Nel nostro cammino pieno di tribolazioni e di gravi preoccupazioni è bello ritrovarci ogni anno nella basilica del nostro patrono per celebrarne la festività.

Assieme al Santuario della B. Vergine di San Luca, questo è il luogo in cui ogni bolognese ritrova se stesso e la sua identità, e rafforza quel patto di cittadinanza che è all’origine della nostra vita civica.

In questa basilica, nostro onore e nostro vanto, cessano i pur opportuni conflitti che caratterizzano ogni vera democrazia. Siamo come costretti dalla solennità del luogo e dall’immensa tradizione scolpita nelle sue pietre, a riprendere coscienza delle ragioni, condivise da tutti, che hanno dato origine e continuano a dare origine al nostro patto di cittadinanza. Vorrei con rispettosa semplicità aiutarvi a riscoprirle.

1. Cari fratelli e sorelle, la seconda lettura che abbiamo ascoltato è la luce che guiderà i passi della nostra riflessione.

Riprendendo una metafora già ben nota anche alla sapienza pagana, l’Apostolo paragona la comunità ad un corpo, nel quale l’unità non impedisce la diversità [«come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione»], e la diversità non distrugge l’unità [«pur essendo molti siamo un solo corpo in Cristo»].

È di fondamentale importanza per comprendere la pagina paolina, tenere presente che l’evento di cui parla l’Apostolo, accade «in Cristo». È in Lui che si ricostruisce l’unità fra le persone. Non un’unità astratta, fondata su pseudo-universalismi, come si è cercato di fare negli ultimi secoli, ma sulla concretezza della vita di ciascuno.

La Chiesa deve donare alla nostra città prima di tutto la possibilità di essere veramente un solo corpo pur essendo molti. Essa lo fa ogni volta che celebra l’Eucarestia. I destini della nostra città, il perdurare di quel patto di cittadinanza che sta alla sua origine, dipendono ultimamente dalla celebrazione dell’Eucarestia. Se essa si interrompesse, il patto si spezzerebbe.

Certamente la fecondità dell’evento eucaristico può essere compresa solo dai credenti. Tuttavia l’incontro con Cristo che esso realizza, ed ha realizzato durante i secoli in questa città, ha plasmato la coscienza di tanti cittadini, generando in essi ragioni forti, vere e buone per una convivenza libera e virtuosa. E sono ragioni che anche uomini non credenti ma pensosi dei destini della nostra città hanno condiviso. Esiste infatti una grammatica della convivenza civile, comune a tutti, infrangendo la quale la città diventa coesistenza di egoismi opposti, perché l’uomo diventa estraneo all’uomo.

In quest’ora così solenne, in questo luogo «che tanta nei secoli accolse anima umana», dobbiamo dunque farci una domanda: quali sono le ragioni del nostro convivere in questa città? Sono ragioni vere e buone?

Vere significa che sono corrispondenti, adeguate al nostro essere persone umane; che sono radicate nella verità della persona.

Buone significa che sono ragioni capaci di farci vivere una vita degna di essere vissuta; capaci di farci progettare il futuro; capaci di costruire una città libera e virtuosa.

Sono sicuro che queste ragioni sono presenti nel cuore di ciascuno di voi, poiché – come disse già il poeta greco – «non siamo fatti per odiare, ma per amare». Ma esse sono continuamente insidiate ed impedite di essere operative.

Cari fratelli e sorelle, a questo punto è inevitabile porsi la domanda: quali sono le insidie alle ragioni vere e buone per vivere in una città libera e virtuosa? Darò a questa domanda, come lo esige il momento, una risposta telegrafica.

La più grave insidia è costituita da una visione individualista dell’uomo, la quale riduce il bene all’utilità. È una visione che, in fondo, ha insegnato e continua ad insegnare che le ragioni della nostra convivenza sono sempre ed esclusivamente ragioni di utilità propria. Questa comprensione della società umana, risultata ampiamente vincente nella società occidentale, ha tradito però tutte le promesse con cui si era presentata e raccomandata. Ciò che sta accadendo ai nostri giorni lo dimostra ampiamente: la ricerca del proprio interesse privato sia dei singoli sia delle comunità nazionali a spese del superiore bene comune, lascia dietro di sé macerie di ogni genere.

Il “cuore” del dramma dell’uomo è che, pur consapevole di questo fallimento, non è ancora riuscito a riscoprire con chiarezza la verità di se stesso. Chi soffre maggiormente di questa situazione sono – e non potrebbe essere diversamente – le giovani generazioni, vedendo adulti che si presentano loro, come se avessero incollato sulle spalle un cartello sul quale è scritto: “non seguiteci; abbiamo perso anche noi la strada”.

Vengono in mente le parole del profeta: «le guide di questo popolo lo hanno fuorviato, e quelli che sono stati guidati si sono smarriti» [Is 9,15].

2. Radicata e fondata come è sulla celebrazione dell’Eucarestia, la Chiesa non può lasciare l’uomo in questa incertezza. Essa deve ridire la risposta alla domanda: quali sono le ragioni vere e buone di una civitas libera e virtuosa? Quali sono le ragioni vere e buone che ci spingono a rafforzare quel patto di cittadinanza che è all’origine della nostra città? Mi limito ad indicarne solamente quattro, brevemente.

La prima è la presenza, in ciascuno di noi, della coscienza morale. È la forza che deriva dalla capacità di ogni uomo di saper discernere il bene dal male, ciò che è giusto da ciò che è ingiusto. Come scrive un grande economista del XVIII secolo: «non vi è niente di più vero nelle cose umane quanto questa massima: ogni politica, ogni economia, che non è fondata sulla giustizia, sulla virtù e sull’onore, distrugge se medesima» [A. Genovesi, 1766].

Il male più grande che possiamo fare al singolo e alle convivenze umane è di indurre il sospetto che l’uomo è incapace di conoscere una verità circa il bene della persona, che sia universalmente condivisibile da ogni persona ragionevole. Il relativismo morale è la malattia mortale del singolo e delle società.

La seconda è indicata dalla parola del Creatore all’inizio della creazione: «non è bene che l’uomo sia solo…». La costituzione di relazioni autentiche fra le persone, non basate semplicemente sulla ricerca del proprio utile, è una condizione necessaria per la fioritura della nostra umanità. In una città dove questa condizione non è adempiuta, la persona umana vive male. Se non fossimo più capaci di percepire il valore intrinseco, la preziosità insita nella relazione fra persone, invano cercheremmo altri fondamenti alla cittadinanza. È per questo che la relazione coniugale fra uomo e donna è bene preziosissimo, poiché è l’archetipo di ogni relazione interpersonale.

La terza è che siamo eredi di una grande tradizione umanistica, di cui non possiamo sbarazzarci impunemente. La nostra città non può rassegnarsi a gestire l’esistente, a conservare quanto ha ricevuto. Giorno dopo giorno rischiamo di vivere senza più alcun retroterra spirituale, come eredi che hanno già dilapidato il patrimonio ricevuto. L’urgenza di rafforzare, o meglio di riscrivere il patto di cittadinanza nasce da un grande bisogno di speranza di cui questa città soffre; dalla necessità di ricuperare la capacità di progettare il suo futuro.

La quarta ragione vera e buona che ci spinge a rafforzare il patto di cittadinanza, è che nella nostra città esistono le forze spirituali capaci di farla uscire dai giorni di preoccupazione in cui vive. È la forza insita nell’Alma Mat
er Studiorum
come luogo di elaborazione di pensieri alti e progetti veri. È la forza morale di tanti imprenditori che, nonostante il momento difficile, continuano, e difendono uno dei beni umani fondamentali, il lavoro.  È l’impegno di tutti i lavoratori, i quali hanno sempre saputo nei momenti più difficili della nostra città difenderne la sua consistenza civile. Ma soprattutto è la forza grandiosa delle nostre famiglie, fondate sul matrimonio legittimo, che sono il vero futuro della nostra città, la vera pietra angolare di ogni costruzione sociale.

3. Qualcuno potrebbe chiedere: e la Chiesa di Dio in Bologna che cosa fa, quale compito ha nel rafforzare o riscrivere quel patto di cittadinanza che è all’origine della nostra città?

Cari amici, la risposta è l’evento che celebreremo domenica 14 ottobre in Cattedrale, davanti alla B. Vergine di S. Luca, la quale scenderà in città in via del tutto eccezionale: l’apertura dell’Anno della Fede.

Il principale servizio che la Chiesa fa alla nostra città è la forza della sua fede in Cristo. La nostra città ha bisogno di una Chiesa veramente, profondamente, coraggiosamente credente. È la fede della Chiesa che rende presente Cristo dentro la storia, dentro le vicende umane della nostra città. E senza Cristo, il popolo prima o poi si ritrova dominato dal Grande Inquisitore di turno, il quale dirà sempre a Cristo: “perché sei venuto a disturbarci?”. È questa la cosa più affascinante, ed anche socialmente più rilevante che la Chiesa fa in mezzo a questa città: annunciare che Cristo mediante essa è presente fra noi. È questa presenza che redime tutti e tutto.

Solo una Chiesa credente è capace poi di elaborare una comprensione interamente vera dell’uomo, da condividere con ogni persona che non voglia rinunciare ad un uso spregiudicato della propria ragione. Non dobbiamo mai dimenticare che la chiave di volta della ricostruzione della nostra città, come di ogni città, è la cultura; è la comprensione che si ha della persona umana.

Cari amici, non posso terminare senza ricordare l’immane tragedia che ha colpito nel maggio scorso tanti nostri fratelli e sorelle. La dignità con cui hanno vissuto quei giorni; la forza spirituale che li ha spinti subito a ricominciare; la scoperta che non l’avere è valore supremo, vista la sua fragilità, ma l’essere dentro una vera comunità di persone, sono i grandi insegnamenti che ci hanno dato.

Essi sono stati sintetizzati in modo mirabile dal bambino che mi ha rivolto il saluto quando ho incontrato tutti i bambini delle zone terremotate. Mi ha detto: «Eminenza, nelle nostre case ci sono tante crepe, ma nessuna nei nostri cuori».

Ecco cari amici: questo è tutto. Non ci siano “crepe” nei nostri cuori – la crepa della paura del futuro, della rassegnazione, della chiusura egoistica – ed allora saremo capaci di ricostruire la nostra città; di riportarla alla sua secolare vocazione spirituale: maestra di umanità. Così sia.

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ZENIT Staff

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