di Antonio D’Angiò
ROMA, sabato, 29 settembre 2012 (ZENIT.org).- “Niente è più funesto, infatti, più irragionevole e più ingiusto di alcune parole prese chissà da dove, riferite dio sa a che cosa, origliate casualmente, capite in qualche modo, ma forse, anzi, nemmeno capite, scritte in fretta e furia. Ma, ripeto, io conosco me stesso, e non temo nemmeno questo tipo d’accusa.”
Questa frase, tratta dal libro “In difesa di me stesso”, si trova nella parte centrale della memoria difensiva, databile 6 maggio 1849, che Dostoevskij consegna alla commissione d’inchiesta, poiché accusato di aver partecipato, nella città di San Pietroburgo, agli incontri del circolo intellettuale – politico di Michail Petrasevskij, sostenitore del socialismo utopico di Fourier e Saint-Simon.
Dostoevskij, arrestato il 23 aprile 1849, rimase in carcere per otto mesi, sino al 22 dicembre 1849 quando, condannato a morte e già allineato per la fucilazione, si vide commutata la pena capitale in quattro anni di lavori forzati e altri quattro di servizio militare obbligatorio.
Il libro “In difesa di me stesso”, proposto nel 1994 dalle edizioni Il Melangolo, faceva parte di una collana di testi che componevano la serie “Il fondaco di MicroMega”, testi in precedenza apparsi sull’omonima rivista bimestrale.
L’opera è suddivisa in tre parti; la prima è l’introduzione, curata da Giovanni Buttafava e intitolata “L’incontenibile diffidenza verso l’Occidente”; la seconda è la memoria difensiva vera e propria, mentre l’ultima è composta dall’interrogatorio formale e dalla deposizione dello scrittore russo.
Nella memoria difensiva Dostoevskij cerca di rispondere a tre quesiti: Qual é il carattere dell’uomo e del politico Petrasevskij; cosa succedeva nelle serate da Petrasevskij ed il parere di Dostoevskij in proposito; se quelle riunioni avevano uno scopo segreto.
E’ chiaramente la seconda domanda, cioè quella che attiene a cosa accadesse durante le serate in casa Petrasevskij, che consente di riflettere sui motivi che portarono all’arresto di Dostoevskij e di come un cittadino si potesse difendere da accuse che reputasse ingiuste. In tutte quelle pagine c’è, naturalmente anche, un ritratto dell’epoca storica, dei fermenti ideali e della predilezione di Dostoevskij, comunque, per una società autocratica.
Lo scrittore russo chiarisce, nella memoria difensiva, le poche volte che ha preso la parola in quegli incontri e gli argomenti sui quali ha espresso le considerazioni, e cioè la letteratura (e il suo rapporto con la censura) e il legame tra personalità umana ed egoismo.
Per chiedersi:”Ma di cosa, insomma, mi si accusa? D’aver parlato di politica, dell’Occidente, della censura e di altro? Ma chi, al giorno d’oggi, non ne parla e non pensa a questi problemi? Per quale ragione aver studiato, a quale scopo la scienza avrebbe risvegliato la mia curiosità, se poi non avessi il diritto di esprimere la mia opinione personale oppure non potessi trovarmi d’accordo con altre opinioni, tutte di per sé autorevoli? In Occidente sta avvenendo qualcosa di terribile, si sta compiendo un dramma senza precedenti. Il vecchio ordine delle cose sta crollando, sta scomparendo. I princìpi fondamentali della società minacciano ogni momento di precipitare trascinandosi dietro l’intera nazione.”
Non si può non ricordare che, in quell’estate del 1994 quando questo libro di Dostoevskij fu stampato, si era in uno dei momenti di massima contrapposizione tra magistratura e politica e, a distanza di diciotto anni, alcuni argomenti sono ancora vivissimi; come il tema della libertà di espressione e quello della situazione carceraria.
Quest’anno lo scrittore russo è stato al centro di una mostra al Meeting di Rimini e, nel catalogo edito da Itaca curato da Tat’jana Kasatkina, vi è una bella icona russa moderna che rappresenta la “Resurrezione di Lazzaro”, all’interno del capitolo dedicato al romanzo “Delitto e Castigo”.
Si può terminare la rilettura di “In difesa di me stesso” (nonché della vista e del commento all’icona russa) riflettendo su cosa sia stato il castigo senza delitto, subìto da Dostoevskij e poi l’esservi scampato; quasi da credere ad una sua personale resurrezione, da una morte apparente.