ROMA, lunedì, 24 settembre 2012 (ZENIT.org).- Riprendiamo il testo della prolusione del cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza Episcopale Italiana, al Consiglio Episcopale Permanente in programma a Roma dal 24 al 27 settembre 2012.
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Venerati e Cari Confratelli,
veniamo da mesi particolarmente impegnativi e intricati, che dettagliano una condizione sempre più complessa, per noi italiani come per l’Europa. Non si è infranto un equilibrio da riaggiustare; è accaduto qualcosa di più consistente e profondo che ha portato a galla di colpo le contraddizioni, le ingenuità, le fughe in avanti, gli squilibri, i rinvii accumulatisi nei decenni e sui quali evidentemente ci si illudeva di continuare a lucrare. Bisognerà riflettere per meglio comprendere le radici profonde – culturali, morali ed economiche – della crisi, ma nel contempo dobbiamo farci carico del pregresso, anche quello più rinviato e sgradevole. Non è la prima volta, nell’Italia moderna, che si debbano affrontare prove dure e inesorabili. Forse, in altri passaggi, però, s’imponevano convinzione diffusa, coraggio corale, quasi entusiasmo contagioso. Anche per questo noi Vescovi ci riuniamo: la vita del nostro popolo ci tocca e le condizioni di essa ci interrogano. «La Chiesa – diceva di recente il Papa alla Coldiretti (Discorso all’Assemblea nazionale, 22 giugno 2012) – non è mai indifferente alla qualità della vita delle persone». Come Pastori, ci lasciamo guidare da quello sguardo del discernimento che, non a caso, taluno considera oggi come la “regola” principale emersa con il Concilio Vaticano II. Discernimento sapientemente usato per andare in profondità, come a carpire la traccia del pensiero di Cristo su questa situazione. Do, quindi, il benvenuto a tutti e a ciascun Confratello, in vista anche dell’impegno comune che è stato programmato per questi giorni, in una stagione che non è certo ordinaria. Nel contempo esprimiamo la nostra partecipazione al lutto dell’Arcidiocesi di Capua per la morte improvvisa di Sua Eccellenza Mons. Bruno Schettino, membro anche di questo Consiglio, quale presidente della Commissione per le Migrazioni e della Fondazione Migrantes. Affidiamo al Signore della vita la sua anima, ricordando la sua generosità e la sua passione per il Vangelo, incarnato anche nelle condizioni più difficili.
1. «L’Italia reagisca alla tentazione dello scoraggiamento», diceva con accoratezza il Papa in visita ad Arezzo (Saluto al Regina Caeli, 13 maggio 2012). Noi, per quel che possiamo, siamo qui per questo. Vogliamo essere gli araldi del Vangelo, e dunque della speranza. Forse, talora, anche scomodi, ma certo appassionati del comune destino, e per questo vedette insonni di un’alba già possibile. Siamo in obbligo però di constatare che c’è carenza di quella visione capace di tenere insieme i diversi aspetti dei problemi e coglierne i nessi, abbarbicati come spesso si è alla propria visione di parte, quando non al proprio tornaconto personale. Bisogna che si reagisca con un ripensamento anzitutto spirituale e morale, il quale solo può abilitare ad un realismo crudo ma fiducioso, aperto al superamento non demagogico della situazione. Il nostro popolo tiene, resiste; naturalmente si interroga e patisce; ma non si arrende e vuol reagire. Sempre meno si lascia illudere dalle chiacchiere, ed esige la nuda verità delle cose, pur senza lasciarsi imprigionare da prospettive solamente negative e deprimenti. È in questa cappa di sfiducia, infatti, il fattore più pernicioso e pervasivo. L’Italia, riversa nella contingenza, stenta a maturare una prospettiva adeguata, un respiro lungo. L’abbiamo già detto nella prolusione di gennaio, e ci permettiamo di ripeterlo: non ci stupisce di vedere sui banchi delle chiese persone ieri indifferenti e distratte, e oggi più pensose e concentrate. Ci sono segnali che certificano come vi sia, ad esempio, un popolo insospettabile e non residuale fedele alla preghiera del Rosario e alla Messa quotidiana, magari seguite alla televisione. La cittadinanza è più in avanti di quanto non si pensi. I colpi della vita inducono, infatti, ad essere meno superficiali, a diventare più riflessivi, a riscoprire i valori veri. Dobbiamo tenere conto che questo popolo c’è e non è rinunciatario o passivo, coincidendo in gran parte con la Nazione più responsabile seppur silenziosa, capace di sacrifici e di rinunce, ma non più ad occhi chiusi e con atteggiamenti fideistici. Auspichiamo che questa componente del Paese sia meno trascurata o resa pressoché invisibile, per essere invece più determinante. Solo un sano anticonformismo ci salva dalla stagnazione e può attrezzarci per cooperare al cambiamento.
2. Oggi meno che mai nessuno può illudersi di salvarsi da solo. Dobbiamo tutti essere protagonisti di cambiamento, mai indifferenti alla sorte di chi è più sfortunato di noi. In questo itinerario, ci è oltremodo preziosa la vicenda terrena di testimoni attendibili. Vorrei citarne alcuni. Il primo è don Ivan Martini, parroco a Santa Caterina di Rovereto di Novi, diocesi di Carpi, rimasto ucciso sotto le rovine della sua chiesa, mentre in un impeto di lucida generosità voleva portare in salvo la statua della Madonna venerata dal suo popolo. Ma proprio in quegli istanti, il drago indomabile del terremoto scatenava uno dei suoi terribili colpi di coda. Per lui, dopo le vite umane, c’era il segno della Vita da mettere al sicuro: ha fatto ciò che istintivamente farebbe ogni nostro buon prete. Ma, nonostante le precauzioni prese da lui stesso e dai vigili del fuoco, non ce l’ha fatta, è stato sorpreso dalla scossa traditrice. Circostanza, questa, che ci induce ad esprimere nuova solidarietà alle popolazioni e alle Chiese ferite dal tragico evento tellurico: nessuna di esse può essere oggi lasciata a se stessa. È la promessa che avevamo fatto e dobbiamo mantenere per non abbandonarle nella loro ammirevole voglia di rinascere. Gli undici milioni di euro, subito raccolti, sono serviti per realizzare una ventina di Centri di comunità richiesti dalle Diocesi colpite. E così sono partiti i gemellaggi tra Parrocchie, sempre con la regia tempestiva delle Caritas regionali, coordinate dal nostro Centro nazionale. Il secondo testimone, più noto e anzi famoso, è il Cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo emerito di Milano, che ha cessato di vivere il 31 agosto scorso, dopo una lunga malattia portata con dignità, diventando esempio di una non retorica accettazione della volontà di Dio. Studioso appassionato della Bibbia, pastore creativo sul fronte della nuova evangelizzazione, cercatore indomito di strade che portino ad incontrare gli uomini del nostro tempo, egli è stato «figura imponente» (dall’omelia del Cardinale Angelo Scola) della Chiesa nel dopo Concilio. Nel suo motto episcopale «Pro veritate, adversa diligere», troviamo da una parte molto di lui, e dall’altra la direzione di un cammino che, in comunione con la Chiesa e con l’aiuto della grazia, ciascuno di noi sa di dover percorrere. Nello stesso giorno dei funerali, il 3 settembre 2012, a Verona, dai Confratelli del Triveneto veniva tributato l’estremo saluto a Sua Eccellenza Mons. Maffeo Ducoli, Vescovo emerito di Belluno – Feltre. Ricordiamo con affetto anche la sua vita e quella dei pastori che, consumandosi per la Chiesa, restano per noi testimoni eloquenti di Cristo Risorto. Ma oltre a loro, desideriamo qui evocare e ringraziare – come testimoni all’opera – i coraggiosi Sacerdoti e Vescovi del nostro Meridione impegnati in prima fila nel riscattare quella terra stupenda dalla presenza devastatrice della mafia, della camorra e della ’ndrangheta. Purtroppo, anche una volta uccisi, non si è lasciati in pace, come è accaduto pure di recente a don Pino Puglisi, presto felicemente beato, e a don Peppino Diana, la cui memoria è non solo in benedizione ma deve ispirare scelte di impegno coer
ente da parte delle nostre comunità.
3. Non ci uniscono però solo le tragedie, ci uniscono di più – nel senso che ci edificano insieme – gli esempi di quanti ci ricordano che solamente delle esistenze non mediocri riescono ad incidere nel vissuto ecclesiale e sociale. E che, senza lo spirituale nella persona e nella società, c’è una povertà strutturale incolmabile, si determina una perdita per tutti, anche per chi tale dimensione non la coltiva o non la stima. Siamo inoltre aiutati, e quasi sospinti a stare costruttivamente insieme, dalla testimonianza d’amore e dalla sapiente iniziativa di Benedetto XVI: la sua figura sempre emerge nitida e disarmante. È un’ammissione che è venuta di recente anche da chi lo serve più da vicino, monsignor Georg Gaenswein: «Il programma del Papa? Solo il Vangelo» (Avvenire, 8 giugno 2012). Noi ci stringiamo a lui come a roccia solida e nocchiero austero, che conduce con trasparenza e parresia la barca di Pietro tra scogli ieri ignoti. Dal laccio di tradimenti impensabili o malevoli interpretazioni, a liberarlo è puntualmente la sua mitezza e la sua disarmante affabilità, procedendo egli nella propria missione ancora più amato. Al male occorre semplicemente dire no, anche quando dovesse indossare quella «cultura della menzogna che si presenta sotto la veste della verità e dell’informazione, in cui il moralismo è maschera per confondere e creare confusione e distruzione […]. Non conta la verità ma l’effetto, la sensazione. Sotto il pretesto della verità si distruggono gli uomini e si vuole imporre solo se stessi come vincitori» (Benedetto XVI, Lectio divina al Convegno ecclesiale della diocesi di Roma,11 giugno 2012). Noi Vescovi vogliamo ancora una volta ringraziare Pietro per la saldezza della sua fede. Ringraziarlo perché non cessa di esortarci «a non fermarsi all’orizzonte puramente umano e ad aprirsi all’orizzonte di Dio, all’orizzonte della fede» appunto (Saluto all’Angelus, 5 agosto 2012), e soprattutto a presentare in ogni occasione ciò in cui crediamo: «Non si tratta di seguire un’idea, un progetto, ma di incontrare Gesù come Persona viva, di lasciarsi coinvolgere totalmente da Lui e dal suo Vangelo» (ib). La Chiesa non è moribonda – come a volte si vorrebbe e viene rappresentata – lacerata da divisioni, soffocata da contro-testimonianze, in condizioni di mera sopravvivenza. La Chiesa è unita e – seppur sotto sforzo – vuole affrontare le traversie del tempo con umiltà, vigore e lungimiranza. Se nessuno ha interesse a nascondere la verità, non si può tacere che la Chiesa è rimasta forse l’unica a lottare per i diritti veri dei bambini, come degli anziani e degli ammalati, della famiglia, mentre la cultura dominante vorrebbe isolare e sterilizzare ciò che di umano resta nella nostra civiltà. Nella Chiesa avviene qualcosa di straordinario: uomini limitati e miseri possono riscattarsi e compiere opere immense. Questa è la ragione ultima dell’impossibile irrilevanza della Chiesa, e del cristianesimo che lei nutre.
4. In queste settimane le nostre comunità sono concentrate nel far ripartire la pastorale ordinaria dopo il lavoro che sempre di più riempie l’estate delle parrocchie. Lavoro ordinario, ma non generico o standardizzato. Quest’anno poi, nello svolgimento delle loro attività, le parrocchie avranno l’orecchio rivolto verso il Sinodo mondiale dei Vescovi dedicato al tema cruciale della «Nuova Evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana». Forse mai come questa volta, il Sinodo parlerà proprio di noi, delle nostre condizioni pastorali, delle nostre angustie, delle nostre speranze. L’Anno della Fede poi darà profondità all’analisi che verrà condotta nel Sinodo, e procurerà una prima eco ai temi svolti e alle proposte che vi scaturiranno. Il 50° del Concilio Vaticano II sarà una suggestione ulteriore e oltremodo benefica per ricalibrare le nostre proposte pastorali, confrontandole con documenti che restano insuperati, in particolare nella loro taratura comunionale e missionaria. «Potremmo dire – osservava la settimana scorsa il Papa – che la nuova evangelizzazione è iniziata proprio con il Concilio» (Discorso ai giovani Vescovi,20 settembre 2012). Insomma, quello che si avvia è un anno pastorale benedetto da circostanze realmente speciali, che non possono non rinnovare la generosità apostolica di tutti. Moltissimo del materiale scaturito dall’ultima Assemblea generale della CEI, a cominciare dall’attenzione all’iniziazione cristiana e alla formazione degli adulti, può trovare nelle parrocchie terreno propizio di risonanza e di rinnovate esperienze. È il legame col territorio quello che ancora una volta ci interpella, interpella noi Chiesa italiana, giacché non c’è punto del Paese che non sia assegnato ad una data parrocchia. Non c’è famiglia, per quanto dislocata, che non abbia un’attribuzione ecclesiale. Non c’è persona che non debba essere, in un modo o nell’altro, raggiunta da una proposta. In particolare, è la continuità generazionale quella che si vuole assicurare perché, nonostante le carenze e le ristrutturazioni pastorali qua e là in corso, non capiti che gruppi di ragazzi – e relative famiglie – siano non invitati a prendere parte all’ itinerario dell’iniziazione cristiana, dunque alla catechesi e alla vita sacramentale. Tutti debbono venire interessati e coinvolti. «Occorre evangelizzare – non in maniera decorativa, a somiglianza di vernice superficiale, ma in modo vitale, in profondità e fino alle radici – la cultura e le culture dell’uomo […] partendo sempre dalla persona e tornando sempre ai rapporti delle persone tra loro e con Dio» (Paolo VI, Evangelii nuntiandi, 20). Poi, purtroppo, non tutti risponderanno come vorremmo, ma per quel che sta in noi non possiamo accettare che vi siano previamente dei buchi nella rete del Pescatore. Rigorosamente parlando, oggi non può esistere una pastorale solo stanziale. Le persone e le famiglie si muovono, emigrano più facilmente, si spostano la domenica, dividono la settimana tra località diverse, senza dire che non c’è parrocchia in cui non risiedano degli immigrati, per di più provenienti da diverse parti del mondo, dunque di culture e religioni differenti. Pensare ad una pastorale statica e stantia significa di fatto tagliarsi fuori dalla vita e dalle sue inevitabili articolazioni. Oggi è imprescindibile pensarsi collocati in un contesto culturale dinamico: nessuna persona, nessuna famiglia vanno lasciate a se stesse, ignorate, non interpellate. La parrocchia ha un centro nella chiesa, e soprattutto nell’Eucarestia, ma questo centro è tale se si irradia e va lontano, se interessa non solo le età ma anche gli ambienti. Ecco perché nel decennio scorso, ad un certo punto, si è parlato di «pastorale integrata»: si invocava un’integrazione effettiva tra le potenzialità delle parrocchie e quelle dei gruppi, delle associazioni, dei movimenti, ciascuno con la disponibilità ad integrarsi e lasciarsi integrare, a sagomarsi per quanto è possibile sulla base delle urgenze e delle necessità, non illudendosi che l’autoreferenzialità assicuri di fatto un futuro. Tutti devono mettersi all’opera nella grande vigna del Signore, perché di tutti i talenti c’è urgente bisogno. Ovvio che un’impostazione sì fatta complicherà un po’ l’esistenza, ma non c’è alternativa. « Le sfide di una società largamente secolarizzata invitano ora a ricercare con coraggio e ottimismo una risposta, proponendo con audacia e inventiva la novità permanente del Vangelo» (Benedetto XVI, Discorso ad un gruppo di Vescovi francesi, 21 settembre 2012). Non possiamo aver pace fino a che non arriviamo a bussare a ogni porta e a offrirci alla libertà di ciascuna famiglia, meglio se valorizzando le tradizioni da cui provengono, in ogni caso non lasciandoci da queste inibire.
5. Ecco perché osiamo accostare l’inizio dell’anno pastorale al
l’immagine posta dal Papa nell’incipit, e dunque nel titolo, del motu proprio di indizione dell’Anno della fede: varchiamo la Porta fidei (cfr At 14,27)! Varchiamola con letizia ed entusiasmo contagiosi. Per farcela, c’è bisogno di un minimo di organizzazione, che non è tuttavia fine a se stessa, ma funzionale allo scopo (cfr Benedetto XVI, Discorso ad un gruppo di Vescovi cit.): la rinnovata conversione al Signore per gustare la gioia profonda della fede. Il Sinodo sarà l’occasione provvidenziale per mettere a fuoco l’evangelizzazione nel mondo, e i Padri si potranno confrontare e istruire con situazioni le più diverse. Non deve stupire che il processo di secolarizzazione, oltre a sfidare la Chiesa nei Paesi occidentali di antica conversione, definisca la situazione della fede anche in contesti assolutamente diversi. Il Papa non da oggi si sofferma sul carattere del nostro tempo «nel quale Dio è diventato per molti il grande Sconosciuto e Gesù semplicemente un grande personaggio del passato» (Discorso all’Assemblea dei Vescovi d’Italia cit.). La quaestio fidei è per lui la sfida prioritaria. Per i fantasmi antireligiosi che stanno facendo la loro comparsa anche in Europa, e per una fobia anti-cattolica irragionevole che qua e là si manifesta, sappiamo che «La nostra fedeltà al Vangelo ci può costare cara, la verità di Cristo non ha bisogno solo di essere compresa, articolata e difesa, ma anche di essere proposta con gioia e fiducia come chiave della realizzazione umana autentica e del benessere della società nel suo insieme» (Discorso a conclusione della visita ad limina dei Vescovi degli Stati Uniti d’America, 18 maggio 2012). Come non andare con il pensiero e il cuore ai cristiani perseguitati e straziati in troppe parti del mondo, nella sostanziale indifferenza della comunità internazionale? Nessuna violenza può essere accettata, ma sempre deve essere denunciata ad alta voce e ripetutamente. A loro la nostra ammirazione e per loro la nostra preghiera, insieme ad un rinnovato impegno di fedeltà al Vangelo e al grido di dolore che invoca per tutti libertà religiosa e vero rispetto reciproco, sempre e dovunque. La trilogia Sinodo – 50° del Concilio – 20° del Catechismo della Chiesa Cattolica offrirà una circostanza pressoché unica per riflessioni nevralgiche circa l’impegno attuale delle nostre Chiese. Ci prepariamo fin d’ora a raccoglierle e a farne tesoro. Molto interessanti saranno gli spunti di esperienze nuove che si vanno conducendo in diverse regioni del mondo credente. Avvenire ne va raccontando da tempo, come anche il SIR in Europa. La risposta decisiva alle sfide attuali resta sempre la santità, la testimonianza della gioia cristiana, ma occorre anche rinnovare il nostro approccio e il nostro linguaggio, tenendo conto dell’inquietudine che c’è nell’animo di molti. In questo senso, non poco significativa è tutta una serie di programmi ideati e trasmessi da Tv2000, che hanno il tema dell’annuncio come crogiuolo di conversioni concrete e reali; senza tacere degli esiti positivi raccolti delle fiction religiose della Lux Vide. Non è vero che la maggioranza della gente rifiuta il sacro e le sue narrazioni, anzi ne ha fame e nostalgia: Dio non è in esilio, ma al cuore del vissuto umano. Quanto all’anniversario del Concilio, sarà bello e doveroso raccontare alle nuove generazioni che cosa esso è stato e ha rappresentato per la vita della Chiesa e del mondo del XX secolo. In tal senso, l’accostamento diretto ai singoli documenti, per farne occasione di studio e di meditazione, può riservare delle autentiche sorprese. Quei testi conservano una freschezza e un’ispirazione intatte. Per analogia, si può dire lo stesso anche del Catechismo della Chiesa cattolica che nel Vaticano II ha la sua fonte ispiratrice.
6. A proposito di Vaticano II, vorrei almeno di passaggio mettere a fuoco due profili ecclesiali decisivi: il clero e il laicato. Noi stessi, in questa sessione del nostro Consiglio, affronteremo un aspetto della vasta problematica sacerdotale, in particolare quello decisivo delle vocazioni. Non c’è dubbio infatti che dobbiamo imprimere una decisa accelerazione alla pastorale vocazionale, attraverso anche una dedizione specifica di noi Vescovi e una mobilitazione affettiva e orante del popolo di Dio. Ma il fatto che vi siano diocesi e regioni che risentono assai meno della crisi dice che vi sono possibilità da mettere in campo e risorse da esplorare. Anche nei territori più ispidi si possono avere risultati consolanti. Mentre confermiamo il senso di attaccamento e di profonda gratitudine per il nostro clero, lo esortiamo a camminare più speditamente e insieme – loro e noi – sulla via della santità, memori di quanto il Concilio afferma con tono deciso: «È ai Vescovi che incombe in primo luogo la grave responsabilità della santità dei loro Sacerdoti» (P.O. n. 7). La fede – di cui siamo costituiti maestri – chiede che ne siamo anzitutto discepoli umili e generosi per poter essere di esempio alle anime. Esse guardano ai loro Pastori desiderosi di vedere in loro il riflesso del Signore. Credere non è fare qualcosa o molto per Dio; è anzitutto spalancare il cuore per accogliere il dono della grazia, per lasciar “entrare” il Dio tre volte santo; è arrendersi al Signore, stare davanti a Lui, a piedi nudi, per essere coinvolti nella sua volontà. Le anime cercano preti entusiasti, con una chiara identità, che li rende presenti nel mondo senza che siano del mondo; preti «abituati ad ascoltare, soprattutto a metterci nella disposizione interiore ed esteriore del silenzio per essere attenti a ciò che Dio vuole dirci.[…] La preghiera costante risveglia in noi il senso della presenza del Signore nella nostra vita e nella storia, e la sua è una presenza che ci sostiene, ci guida, ci dona una grande speranza anche nel buio di certe vicende umane» (Benedetto XVI, Discorso all’Udienza generale, 5 settembre 2012). I nostri preti devono sapere per esperienza personale come si varca la porta della fede, e devono saperla indicare, accompagnandovi i fratelli che, incerti, spesso lo desiderano ma non sanno come fare.
Quanto al laicato, mi pare molto importante la consapevolezza emersa anche nell’ultima Assemblea episcopale circa i nostri adulti chiamati a porsi in uno stato di formazione permanente, una formazione non solo intellettuale ma che parli al cuore e sempre di più vincoli all’adorabile persona di Gesù Cristo. Una certa mediocrità o relativa significanza trovano le loro radici in una vita spirituale modesta. Solo mediante un’esplicita e continua adesione al Signore, e una compromissione costosa con lui, noi possiamo sperare in una leva di laici non mediocri, capaci di esporsi anche a prezzo dell’irrisione, e capaci di lottare per ciò in cui credono. San Paolo non disdegna questo linguaggio chiaramente figurato, che rende tuttavia l’idea di che cosa significhi agire in ambienti refrattari e a volte ostili. Da tempo parliamo di una nuova generazione di politici cristianamente ispirati; chiediamoci se ci siamo adeguatamente preoccupati di sostenerne la vita spirituale, affinché sia continuamente irrorata, capace di ispirare la testimonianza di comportamenti coerenti. Ma capace anche di dire una parola chiara e coraggiosa in grado di rendere conto, di argomentare senza complessi così da accompagnare l’agire e illuminarne il significato. Fuori da questa dinamica non c’è e non ci sarà leadership in senso credente, e il coinvolgimento nella costruzione della città terrena rimarrà un simulacro dichiarato, ma vuoto. Non si tratta solo di saper porgere il buon esempio – e già questo è gran cosa – ma di provocare le coscienze, di mettere in crisi uno stile di vita quasi collettivo attraverso scelte personali coerenti e controcorrente. Solo allora non si mercanteggerà con ciò che non è mercanteggiabile, e lo stratagemma del compromess
o, talora non evitabile, diventa arte nobile e alta, non resa al ribasso. Non dimentichiamo che i cattolici che hanno lasciato traccia, e di cui spesso si evoca il nome, erano anzitutto dei credenti di prim’ordine, con una forte presa soprannaturale: «Con la vita e con la parola, i pastori con i religiosi e con i fedeli, dimostrino che la Chiesa, già con la sola sua presenza, con tutti i doni che contiene, è sorgente inesausta di quelle forze di cui ha assoluto bisogno il mondo odierno» (G.S., n.43).
7. Il fermento in atto nelle file del nostro laicato – sia nelle forme legate alla Chiesa sia in quelle contrassegnate da una giusta autonomia – punta, a quanto abbiamo compreso, proprio ad un rinnovato protagonismo per il bene di un Paese scosso da vari eventi, in una transizione fattasi ancora una volta vorticosa. L’edificazione di una comunità nazionale che prescinda dalle proprie radici cristiane sarebbe una forzatura antistorica, destinata a rivelarsi dannosa. Noi siamo stati generati dalla predicazione del Vangelo, e l’Italia per secoli è stata culla ed esempio di un modello di civiltà decisivo per i destini del mondo. Di qui anche la nostra preoccupazione di Pastori e cittadini. È vero, in questa stagione sembriamo capitati in un vicolo cieco, costretti a subire la supremazia arbitraria della finanza rispetto alla vitalità civile e culturale o, detto in altro modo, rispetto ad un umanesimo sociale che è la cifra della nostra cultura. Per talune componenti di potere, il Vangelo avrebbe addirittura qualche responsabilità per la situazione in cui si è; e non avrebbe comunque più nulla da dire alla società odierna. Il cristianesimo, in realtà, sa – nella vera coscienza di sé – di essere esperienza non di regresso, ma propulsiva, perché capace di proporre modelli di vita in cui l’esasperazione del consumismo e del liberalismo è bandita, in vista di uno sviluppo comunitario più equilibrato e più garantista rispetto alla dignità di ogni persona. Data la gravità dell’ora, la Chiesa – spinta dalla sollecitudine per la Nazione – fa appello alla responsabilità della società nelle sue diverse articolazioni – istituzioni, realtà politica e della finanza, del lavoro e delle sue rappresentanze – perché prevalga il bene generale su qualunque altro interesse. È necessario stringere i ranghi per amore al Paese. La vita della gente è in grave affanno e sente che il momento è decisivo: dalla sua soluzione dipende la stessa tenuta sociale. È l’ora di una solidarietà lungimirante, della concentrazione assoluta – senza distrazioni – sui problemi prioritari dell’economia e del lavoro, della rifondazione dei partiti, delle procedure partecipative ed elettive, di una lotta penetrante e inesorabile alla corruzione: problemi tutti che hanno al centro la persona e ne sono il necessario sviluppo. Quando – per interessi economici – sull’uomo prevale il profitto, oppure – per ricerca di consenso – prevalgono visioni utilitaristiche o distorte, le conseguenze sono nefaste e la società si sfalda. Dispiace molto che anche dalle Regioni stia emergendo un reticolo di corruttele e di scandali, inducendo a pensare che il sospirato decentramento dello Stato in non pochi casi coincide con una zavorra inaccettabile. Che l’immoralità e il malaffare siano al centro come in periferia non è una consolazione, ma un motivo di rafforzata indignazione, che la classe politica continua a sottovalutare. Ed è motivo di disagio e di rabbia per gli onesti. Possibile che l’arruolamento nelle file della politica sia ormai così degradato? Si parla di austerità e di tagli, eppure continuamente si scopre che ovunque si annidano cespiti di spesa assurdi e incontrollati. Bisogna certo che gli stessi cittadini, che pure oggi sono così scossi, insieme al diritto di scelta dei propri governanti esercitino un più penetrante discernimento, per non cadere in tranelli mortificanti la stessa democrazia. Ecco perché – superando idiosincrasie ideologiche – è necessario tenere saldo il legame con quei valori che fanno parte della nostra storia e ne costituiscono il tessuto profondo; tessuto che a qualcuno sembra talmente acquisito da non aver bisogno di attenzione e di presidio alcuno, e da altri è guardato con sospetto o insofferenza. In una congiuntura particolarmente acuta, la classe politica ha ritenuto proprio dovere fare un passo indietro rispetto alla conduzione del governo del Paese. Ora è chiaro interesse di tutti che il governo votato dal Parlamento adempia ai propri compiti urgenti, e metta il Paese al riparo definitivo da capitolazioni umilianti e altamente rischiose. Nel frattempo, la politica deve riempire operosamente la scena arrivando a riforme tanto importanti quanto attese. Proprio perché la politica è necessaria e, in sé, è arte nobile, non si può sottovalutare il sentimento ostile che va covando nella cittadinanza. Non è, a nostro avviso, un atteggiamento momentaneo e solo umorale, correggibile grazie a consuete mosse ad effetto: va letto con intelligenza e onestà per trarne i moniti salutari. La politica – come dedizione fino al sacrificio per il bene comune – richiede non solo buona volontà, ma capacità di visione, competenza, e quella coerenza personale che rende presentabili agli occhi della Nazione e del mondo. Le elezioni non sono un passaggio taumaturgico, ma vincolo democraticamente insuperabile, e quindi qualificante e decisivo. Per questo bisogna prepararsi seriamente, non con operazioni di semplice cosmesi, bensì portando risultati concreti per il Paese e un rinnovamento reale e intelligente delle formazioni politiche e il loro irrobustirsi con soggetti non chiacchierati. Lo spettro dell’astensione circola e rischia di apparire a troppi come la “lezione” da assestare a chi non vuole capire. In questo senso la competizione resta aperta, e sarà bene che la politica non bruci alcun ponte dietro a sé. Presunzione e personalismi, strumentalità e isterie vanno lasciati da parte. «Utilmente risuona – avvertiva il Papa sabato scorso – il monito del libro della Sapienza, secondo cui “il giudizio è severo contro quelli che stanno in alto” (Sap 6,5)» (Discorso all’Internazionale Cristiano-Democratica, 22 settembre 2012). Si pensi all’Italia che non può essere bloccata, che deve andare avanti e consolidare senza incertezze il proprio posto d’onore dinanzi al mondo, figurando tra le nazioni che contano grazie alle potenzialità e all’esperienza.
8. La strada aperta davanti a noi resta in pericolosa pendenza o in forte salita – a seconda dei punti vista –, in base alle scelte che vengono fatte e alla volontà popolare di assecondarle o meno. Ma la vita della gente è già segnata in modo preoccupante. La povertà cresce e tocca tutti, seppur da punti di partenza molto diversi, e ciò fa la vera differenza. La crisi non è congiunturale ma di sistema, e la durata nel tempo, nonché gli scenari internazionali, hanno ormai dimostrato che riveste una complessità e profondità tali da non poter essere affrontata con “formule” facili o peggio propagandistiche, né oggi né domani. E neppure è possibile un affronto puramente nazionale che prescinda da quel contesto europeo e mondiale che – pur presentando vischiosità e particolarismi – sarebbe illusorio e suicida sottovalutare. E nel quale bisogna saper stare con competenza e autorevolezza riconosciuti. È l’ora della solidarietà lungimirante, ci vogliono strateghi di ogni operosa convergenza più che guardiani severi di un’ortoprassi rigida solo nella misura in cui lo si vuole. Bisogna puntare di più sulle comunità, sui territori, e con loro studiare caso per caso le soluzioni. Quando un distretto è in allarme per la minacciata chiusura di un’importante industria è il territorio a dover essere coinvolto. Sarà allora più ragionevole chiedere ad una comunità anche dei momentanei sacrifici collettivi attivandone ogni virtuosa energia. Certo, il clientelismo ha creato nel tempo situazioni oggi insostenibili, m
a non è possibile destrutturare gli ambiti territoriali in nome della concentrazione. Nessuna comunità oggi può pretendere che siano gli altri a pagare i propri punti di orgoglio; ma tutto questo non può avvenire a scapito del lavoro, sostegno vitale dei singoli e delle famiglie, nonché di quel sudato patrimonio di professionalità industriale che ha raggiunto livelli di eccellenza mondiale, ed è guardato talora con avidità da altri Paesi. In questo campo è difficile credere ai “benefattori”! I giovani sono il nostro maggiore assillo, i giovani e il loro magro presente. Il precariato indica chiaramente una fragilità sociale, ma sta diventando una malattia dell’anima: la disoccupazione o inoccupazione sono gli approdi da una parte più aborriti, e dall’altra quelli a cui ci si adatta pigramente, con il rischio di non sperare, di non cercare, di non tentare più. La mancanza di un reddito affidabile rende impossibile pianificare il futuro con un margine di tranquillità, e realizzare pur gradualmente nel tempo il sogno di una vita autonoma e regolare. Sappiamo che questa condizione è il risultato di tante responsabilità e di decenni di una cultura finta, che ha seminato illusioni e esaltato l’apparenza; ma sia chiaro che la Chiesa è vicina a questi giovani, li sente più figli che mai, anche se alcuni di loro la deridono o non si fidano. Siamo con questi giovani perché è intollerabile lo sperpero antropologico di cui, loro malgrado, sono attori. Siamo vicini perché non si spenga la speranza e non venga meno il coraggio.
9. La gente non perdonerà la poca considerazione verso la famiglia così come la conosciamo. Specialmente in tempo di crisi seria e profonda, si finisce per parlare d’altro, per esempio si discute di unioni civili che sono sostanzialmente un’imposizione simbolica, tanto poco in genere vi si è fatto ricorso là dove il registro è stato approvato. Si ha l’impressione, infatti, che non si tratti di dare risposta a problemi reali – ai quali da sempre si può rispondere attraverso il codice civile esistente – ma che si voglia affermare ad ogni costo un principio ideologico, creando dei nuovi istituti giuridici che vanno automaticamente ad indebolire la famiglia. Com’è noto, nell’opinione pubblica la questione viene rappresentata come contrapposizione tra una concezione laica del matrimonio e della famiglia e una concezione cattolica, con l’accusa che si vuole imporre allo Stato laico una visione confessionale. Ma non è così: si tratta invece della dialettica tra diverse visioni “laiche” dei diritti. Si parla, ad esempio, di “libertà di scelta” a proposito delle unioni di fatto; ma è paradossale voler regolare pubblicisticamente un rapporto quando gli interessati si sottraggono in genere allo schema istituzionale già a disposizione. In realtà, al di là delle parole, ci si vuol assicurare gli stessi diritti della famiglia fondata sul matrimonio, senza l’aggravio dei suoi doveri. Inoltre, si dice che certe discipline giuridiche non impongono niente a nessuno, ma solo permettono di avvalersi di una norma da parte di chi lo desidera. In verità, è la situazione complessiva a non essere più la stessa: infatti, a fronte di determinate leggi, si modifica il significato proprio dell’istituzione matrimoniale, il pensare sociale ne viene pesantemente segnato e, di conseguenza, l’educazione dei propri figli. Sarebbe ingenuo, o peggio, negare che diversi orizzonti normativi influenzano e modificano inevitabilmente il sentire comune e quindi il costume generale. Per questa ragione, il riconoscimento di determinate situazioni o pratiche, non è mai neutrale: pur se non obbliga alcuno, è fortemente condizionante tutti. Quando si vuole ridefinire la famiglia esclusivamente come una rete di amore – dove c’è amore c’è famiglia, si dice –, disancorata dal dato oggettivo della natura umana – un uomo e una donna – e dalla universale esperienza di essa, la società deve chiedersi seriamente a che cosa porterebbe tale riduzione, a quali nuclei plurimi e compositi: non solo sul versante numerico, ma anche su quello affettivo ed educativo, strutturante cioè la persona. La società, come già si profila in altri Paesi, andrebbe al collasso. Perché non si vuole vedere? Non si vuole riconoscere le conseguenze nefaste di queste apparenti “avanguardie”? In realtà, la famiglia ha un ruolo chiave del tutto evidente, e riversa centuplicato sull’intera società il suo benessere complessivo. Ancor più nell’attuale congiuntura, si rivela come fondamento affidabile della coesione sociale, baluardo di resistenza rispetto alle tendenze disgregatrici, vincolo di coesione tra generazioni, non certo “grumo” di relazioni come taluno vorrebbe definirla per liquidarla. Anche per questo essa merita di essere rispettata e considerata molto di più sul piano culturale e mediatico, e quindi sostenuta concretamente con provvedimenti sul fronte politico ed economico. Se la famiglia fonda la società, la presidia e ne garantisce il futuro – com’è del tutto evidente – la società a sua volta ha l’obbligo e la convenienza di presidiare in maniera privilegiata la famiglia, riconoscendone pubblicamente il valore unico e ponendo in essere le misure necessarie e urgenti, affinché non sia umiliata e non deperisca. Un impegno, questo, sacrosanto e insieme laicissimo, come lo sono gli altri impegni che scaturiscono da principi irrinunciabili, e per questo non in discussione. Oggi c’è una gran voglia di introdurre nuovi “diritti”, legati a sensibilità emergenti. Per questo occorre un acuto discernimento, da esercitare negli ambiti nei quali si affermano «gli interessi più vitali e delicati della persona, lì dove hanno luogo le scelte fondamentali inerenti il senso della vita e la ricerca della felicità. Tali ambiti non sono separati ma profondamente collegati, sussistendo un evidente continuum costituito dal rispetto della dignità trascendente della persona umana, radicata nel suo essere immagine del Creatore e fine ultimo di ogni giustizia sociale autenticamente umana» (Benedetto XVI, ib). Legittimo chiedersi: perché si vorrebbero “non negoziabili” proprio questi, mentre quelli che rappresentano il portato dell’esperienza e la riserva del diritto, si dovrebbero liquidare e mercanteggiare? Il fatto che alcuni di essi siano iscritti nel Vangelo, non diminuisce la legittimità civile e lo spessore di laicità di chi vi si riconosce. Un domani la storia darà conto di questa proposta ad oltranza che la Chiesa va facendo della famiglia naturale: non certo per suoi interessi, ma per quelli della comunità civile. La stessa comunità che oggi attende il varo definitivo, da parte del Senato, del provvedimento relativo al fine vita (le Dat). Rimane un ultimo passo da compiere, se non si vuole che un’altra legislatura si chiuda con un nulla di fatto, nonostante un grande e proficuo lavoro svolto a difesa della vita umana nella sua inderogabile dignità: com’è noto, si esclude ogni accanimento, ma anche ogni forma, palese o larvata, di eutanasia, e si promuove quel “prendersi cura” che va ben oltre il doveroso “curare”. Sulla salvaguardia della dignità degli embrioni, come dei migranti che avventurosamente varcano il mare alla ricerca di una vita migliore, la Chiesa è vigile ed è impegnata, ricordando a tutti il monito: che ne è di tuo fratello (cfr Gn 4,9)? Affrontare in senso umanitario il fenomeno delle carrette del mare è un obbligo di civiltà, a cui concorrono l’operosità delle Diocesi e della Caritas, anche se ulteriori soluzioni recettive dovranno essere presto assunte, a fronte di nuove disposizioni.
Venerati Padri, so di aver trascurato temi vitali, soprattutto sul fronte internazionale. Il coraggioso e importantissimo viaggio apostolico in Libano di Benedetto XVI ha rappresentato una concreta finestra di speranza in uno scacchiere decisivo del mondo. Con i suoi messaggi sul fronte della pace, del rispetto delle religioni, dell’anti-fondamentalismo bisogna che tutti
facciano seriamente i conti. Da parte mia, mi appello alla consueta, generosa integrazione che può venire ora dal nostro confronto. Vi ringrazio per l’attenzione e la passione con cui partecipate al nostro lavoro, sul quale invochiamo l’assistenza di Maria Regina, nostra Madre, e il patrocinio dei Santi nostri protettori.