di Marianna Gensabella Furnari*
ROMA, domenica, 23 settembre 2012 (ZENIT.org) – Il principio vita è un principio etico forte: severo ed esigente per un verso, generoso ed espansivo per l’altro. Esige il rispetto e la difesa della vita, imponendo “no” difficili da accettare, perché negano desideri e portano con sé sofferenze. Dietro quei “no” sta il grande “sì” che accoglie la vita “così come è”, senza guardare alla sua qualità, alle capacità che possono renderla più o meno accettabile: l’accoglie e insieme la promuove, se ne prende cura, cercando di renderle sempre più bello e buono l’abitare la terra.
Questo doppio volto del principio vita è tanto più manifesto quanto più debole è la vita umana con cui si confronta. “Fiocchi di neve”: la metafora con cui negli Stati Uniti è stato avviato nel 1997 il primo programma di adozione degli embrioni sovrannumerari crioconservati rende bene la fragilità della loro vite sospese. Chiamati con forza alla vita da un desiderio insistente di procreazione, abbandonati nel ghiaccio dopo che quel desiderio è stato soddisfatto con altri embrioni, o è venuto meno per altri motivi.
Considerato numero tra i numeri, ogni embrione crioconservato è però vita umana che esige rispetto e cura. Il principio vita orienta qui la bioetica in modo stringente. Dal momento che l’embrione umano è “uno di noi”, come recita il parere del Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) Identità e statuto dell’embrione umano del 22 giungo 1996 [1], non è possibile, come è stato ribadito dalla Corte di Giustizia Europea nella sentenza del 18 ottobre 2011, “usarlo”. Poiché fin dalla fecondazione è avviato il processo di sviluppo dell’essere umano, vale anche per lui l’imperativo kantiano di considerarlo sempre anche come fine e mai solo come mezzo. E’ evidente che la prima applicazione di tale imperativo è la tutela del diritto alla vita, in questo caso, il diritto alla nascita.
E’ questo l’orientamento che ha condotto il CNB nel parere Adozione per la nascita degli embrioni crioconservati e residuali derivanti da procreazione medicalmente assistita (P.M.A.)del18 novembre 2005 a sostenere quasi all’unanimità la liceità dell’adozione per la nascita per gli embrioni crioconservati (APN). Anche per l’embrione non più voluto dai genitori biologici si realizzerebbe lo stato di abbandono che consente e, direi di più, chiede l’adozione: unica speranza di essere sottratto ad un destino che ha come alternative al congelamento sine die o l’estinzione o la sperimentazione, nel caso si trovino i criteri scientifici per accertane la non viabilità (vedi il parere del CNB, Destino degli embrioni derivanti da procreazione medicalmente assistita e non più impiantabili, 26 ottobre 2007). Nell’uno e nell’altro caso, pur essendo intenzionalmente chiamato alla vita, l’embrione si troverebbe nella situazione paradossale di dover morire senza mai essere nato (CNB 2005).
Se si legge attentamente il parere del 2005 nella sua interezza si vede però come la quasi unanimità per il sì raggiunta sul testo lasci spazio ad una divisione sulle motivazioni che emerge nelle postille: qui mentre alcuni componenti sottolineano il significato del termine “adozione”, altri prendono le distanze sostenendo la necessità di parlare invece di “donazione”.
La vexata quaestio dell’identità e dello statuto dell’embrione, punto di partenza della questione etica del destino degli embrioni crioconservati, riemerge qui nel suo nucleo essenziale: l’embrione è un “qualcuno” che si può adottare o è un “qualcosa” che si può donare? Che si “possa”, d’accordo, ma quale è il senso etico-ontologico sotteso da questo “licet”?
Questa domanda segna anche il doppio modo in cui si può intendere l’intera questione e spiega anche le perplessità che alcuni bioeticisti hanno in merito.
Se ci spostiamo dal protagonista centrale ai coprotagonisti della vicenda, i genitori adottivi, e in particolare la donna, vediamo come vi sia qui, nell’alternativa adozione/donazione, il discrimine che rende la questione simile o radicalmente dissimile dalla FIVET eterologa e dalla maternità surrogata.
L’adozione prima della nascita, come leggiamo nel parere del CNB del 2005, “viene incontro ad una motivazione profonda della donna che è quella di vivere l’esperienza della gravidanza e del parto che fanno della simbiosi madre-figlio un tratto della vita ricco di interrelazioni fisiche nonché psicologiche rilevanti ed uniche”. Un’esperienza che è “labor”, fatica, dolore e gioia insieme, che implica il movimento del fare spazio alla vita dell’altro, al corpo dell’altro, e insieme la percezione di appartenenza di quella vita che matura nel “proprio” corpo.
La donna che si rende disponibile all’APN fa una scelta radicalmente diversa dal punto di vista etico rispetto alla maternità surrogata: non c’è una strumentalizzazione del proprio corpo, a titolo gratuito o no, per un progetto procreativo di altri: quasi un affitto, un prestito per il tempo necessario alla gestazione. Nell’adozione per la nascita la donna “vive” il suo corpo come ciò che le consente di accogliere una vita che c’è già, sia pure allo stato iniziale, frutto di un progetto di procreazione di altri: un progetto interrotto, che viene ripreso e portato avanti, mettendo a disposizione non solo il proprio amore, il proprio impegno di cura per la vita del figlio che verrà, come la madre adottiva, ma anche il proprio grembo.
Proprio per questa radicale differenza dalla maternità surrogata, la donna che diviene madre nell’adozione per la nascita, vive in modo particolarmente intenso l’ambivalenza che appartiene all’esperienza del materno. Si mette a disposizione, sapendo che il figlio non le appartiene, che è geneticamente figlio di altri: diventa quindi paradigma di una maternità che accoglie la “vita altra” come è sempre la vita di ogni figlio, sia o no generato da noi. Potremmo dire, parafrasando Sarah Ruddick, che tutte le madri sono madri adottive (Il pensiero materno, red edizioni 1993), non solo perché adottano alla nascita, ma perché adottano “per la nascita”.
La donna che sceglie l’APN è anche però, probabilmente come ogni madre, colei che vuole un figlio “suo”: ricerca una sostituzione parziale del legame genetico proprio della genitorialità naturale, attraverso il legame “fisico” della gravidanza. E’ il senso sotteso nelle pubblicità dell’APN che troviamo sui siti di alcuni centri per l’infertilità di Paesi in cui tale pratica è consentita: l’adozione dell’embrione appare più una donazione di un materiale biologico che passa dai genitori al centro, dal centro ad altri aspiranti genitori che possono così realizzare il desiderio di “avere” un figlio.
Si configura qui qualcosa di simile alla FIVET eterologa? Non proprio: mentre in quest’ultima i genitori sono in posizione asimmetrica, dal momento che solo uno dei due è genitore biologico e sociale, nell’APN entrambi sono esclusi dal legame genetico, entrambi condividono un progetto di adozione per la nascita. La contraddizione che è presente nella FIVET eterologa, la valorizzazione del legame genetico che porta a preferirla all’adozione e d’altra parte la svalutazione-rinuncia ad esso da parte di uno dei due componenti della coppia parentale, è assente nell’APN.
Tuttavia, il legame fisico della gravidanza e del parto avvicina la posizione della madre adottiva a quella della madre naturale, fino quasi a confonderla nell’immaginario: l’assenza del legame genetico è in parte sanata dal passaggio attraverso il bios del corpo materno. E’ questo il “di più” dell’APN rispetto all’adozione – nel doppio senso del corrispondere al desiderio fisico di m
aternità della donna, e dell’impegno del mettere a disposizione il proprio corpo – e, insieme, è questo il rischio dell’APN: ciò che può mascherarla da filiazione naturale o da una FIVET ottenuta con minori costi, minori sacrifici.
E’ questo passaggio dal bios – che accomuna, pur nelle differenze che si è tentato di evidenziare, l’adozione dell’embrione alla FIVET eterologa e alla maternità surrogata – la ragione che rimane al fondo del rifiuto da parte dell’Istruzione della Congregazione della Dottrina della Fede Dignitas Personae del 2008 della proposta dell’APN, ritenuta non condivisibile, anche se “lodevole nelle intenzioni di rispetto e difesa della vita umana”.
Ma quelle intenzioni non possono essere di per sé “la giustificazione” dell’APN, come sostiene il parere del CNB del 2005 più volte citato, se è vero, come è vero, che non c’è altra possibilità di vita per l’embrione crioconservato in stato di abbandono?
Certo occorre cautela: occorre evitare che una pratica proposta come “rimedio estremo”, come si legge nella prima postilla al parere, ad una situazione di abbandono che non consente la vita, diventi una pratica di cui si abusi, quasi una scorciatoia di fronte alle difficoltà che si incontrano nel ricorso alla procreazione medicalmente assistita eterologa, vietata dalla legge 40/2004, o alle lunghe attese che si affrontano con l’adozione. Vi è questo rischio? E’ possibile che l’ottica si rovesci e che il rimedio all’abbandono si converta in un incentivo ad una sovrapproduzione di embrioni da donare per l’adozione?
Non lo so e penso sia difficile fare delle previsioni. Certo potrebbe/dovrebbe esservi un ostacolo a questa deriva, un ostacolo fragile anch’esso, come il soggetto che vuole tutelare e come tutte le raccomandazioni etiche: il dovere per chi adotta, così come per chi propone l’adozione, di considerare “quell’embrione” come un “qualcuno” che ha una sua identità genetica, e che deve essere accolto e riconosciuto come tale.
Un dovere che può essere rafforzato sul doppio versante etico e giuridico, riconoscendo anche per il nato da APN il diritto alla verità sulle proprie origini che dovrebbe essere riconosciuto, come raccomanda un parere del CNB (Conoscere le proprie origini biologiche nella Procreazione Medicalmente assistita eterologa, 25 novembre 2011), al nato da FIVET eterologa.
La consapevolezza che al figlio adottato per la nascita deve essere detta la verità sulla propria origine genetica può mettere in guardia i genitori che si propongono per l’APN da ogni seduzione-confusione nel loro progetto parentale e mostrarla per ciò che è: un impegno di cura e di amore per un embrione che diventerà bambino e in cui si intravede già il figlio: qualcuno che è “altro”, come ogni figlio, ma anche, come nell’adozione, un “figlio di altri”, accolto e amato “come” proprio. Il principio vita mostrerebbe allora in pieno la sua generosità nell’accogliere e difendere la fragilità di chi è ancora solo “un fiocco di neve”.
Certo non si potrà accoglierli tutti, portarli tutti alla nascita: come lucidamente ricorda Francesco D’Agostino, la proposta dell’APN non ha un valore pragmatico per le migliaia di embrioni che rimangono sospesi nel ghiaccio, quanto piuttosto un valore simbolico, che mette in evidenza il valore della vita umana dell’embrione.
L’ingiustizia di tante vite bloccate nel ghiaccio rimarrà, come leggiamo nell’Istruzione Dignitas Personae, “insanabile”.
Ma non è forse da sempre compito del principio vita lottare con forza contro le ingiustizie insanabili per strappare anche poche, pochissime vite ad un destino che le condanna? E se riesce a farlo, non siamo forse oltre la dimensione simbolica, in quella vita reale in cui il principio vita gioca la sua partita?
* Professore straordinario di Bioetica,<br>Facoltà di Lettere e Filosofia,
Università di Messina;
Componente del Comitato Nazionale per la Bioetica.
(Per consultare la newsletter di Scienza & Vita, si può cliccare sul seguente link: http://www.scienzaevita.org/materiale/Newslettern59.pdf)
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NOTE
[1] Tra l’altro troviamo nel parere già una prima presa di posizione del CNB a favore della presa in carico da parte del diritto del destino degli embrioni sovrannumerari: “Il Comitato ritiene che il rispetto della vita dell’embrione debba avere la priorità rispetto ad altri valori e che, pertanto, debbano essere definiti strumenti giuridici idonei a garantire agli embrioni in soprannumero una possibilità di vita e di sviluppo” ( Par.9.2).