ROMA, venerdì, 21 settembre 2012 (ZENIT.org)- Con la Lectio Divina di mons. Domenico Sigalini, Assistente generale dell’Azione cattolica e vescovo di Palestrina, si sono aperti i lavori del Convegno nazionale dei Presidenti e Assistenti unitari diocesani e regionali dell’Ac, che ha a tema i “Legami di vita buona. Azione cattolica, Chiesa locale e Chiesa universale”.
Rivolgendosi agli oltre 350 responsabili di Ac intervenuti da tutta Italia, mons. Sigalini ha voluto sottolineare, tra l’altro, come ogni fondamento di “vita buona” presupponga una “fede intelligente”, poiché «una fede senza intelligenza è un insulto a noi stessi e allo stesso Signore che non vuole automi o persone compiacenti. Vuole persone vere, intere, diritte nella loro dignità; non vuole atteggiamenti servili, compromissori». E pensando in particolare ai giovani: «Quanti di essi credono che la fede sia abbandonare la lucidità della ragione, un atto che non regge di fronte alla scienza. Certo, se le conoscenze di Dio e della sua Parola sono ferme alle nozioni rabberciate al catechismo della fanciullezza, non possiamo dire che stiamo usando l’intelligenza».
«Abbiamo però un luogo», ricorda l’Assistente generale dell’Ac, «dove la fede deve fare i conti con l’intelligenza sempre, con la vita concreta, con i fatti quotidiani come la nascita, la morte, la malattia», la parrocchia che per sua natura «serve una fede che cerca l’intelligenza e che non si dà senza ragioni. Il sapere Dio che offre la parrocchia è intrinsecamente spinto a delinearsi nella vita dell’uomo e in ogni sua domanda, per questo non può non dirsi con parole di uomo, con simboli e linguaggi umani, dentro i significati profondi della vita e di ogni vita, nella quotidianità e nel susseguirsi degli eventi, nella ricerca faticosa di senso e di felicità degli uomini». La mediazione culturale non è un optional per la testimonianza cristiana della fede. Di più, solo «una fede chi si fa cultura, che abita la cultura, è autentico servizio alla vita quotidiana della gente, al tessuto di relazione del territorio, alla costruzione di una società». Per questo, ribadisce mons. Sigalini, urge per i laici cattolici l’«evitare scorciatoia che, se da una parte aiutano tutti noi a sentirsi a posto in coscienza, perché siamo stati capaci di dire con coraggio la nostra fede, dall’altra lasciano l’uomo solo ad affrontare il delicato momento del dirsi della fede nella sua vita, nelle sue fatiche quotidiane, nella pressione degli eventi, nei problemi che rimangono spesso aperti non solo per tutta una vita, ma anche per stagioni di storia».
Il monaco camaldolese Franco Mosconi nella sua relazione di apertura, dedicata al tema “I laici e il Concilio” ha offerto all’uditorio un “percorso conciliare” basato su tre direttrici, tre vocaboli, «forse non nuovi ma certo da riscoprire».
La prima parola è speranza, e sperare nel cristianesimo vuol dire avere fisso «un orizzonte escatologico», significa lasciar cadere tante sovrastrutture, gli stereotipi spirituali, la melassa devozionale e rischiare sul sentiero d’altura dei «valori essenziali del Vangelo quali la gratuità, l’amore, la povertà, la piccolezza», in opposizione a ciò che ormai siamo stati convinti a considerare come veramente primari, cioè «la potenza, il successo, la ricchezza, la forza dei numeri e dei mezzi». «Senza questa essenzialità il cristianesimo si stinge in un impegno pur nobile ma col solo debole respiro della storia».
Se si rimane in questa valle senza «levare il capo verso la liberazione vicina», come diceva Gesù, si è «bloccati dai paludamenti delle nostre menti che sono le nostre paure, le nostre angosce, i nostri sospetti». «Le comunità si appesantiscono, si inflaccidiscono, cedono stancamente, ingrigite come la tiepida e sazia Chiesa di Laodicea, rigettata dal Cristo dell’Apocalisse».
Ed ecco, allora, la seconda parola che don Mosconi ha estratto dalla sua lettura del testo della Prima Lettera di Pietro, la santità. «Un termine ormai relegato tra gli incensi e spogliato della sua carica originaria fatta di trascendenza e di esistenza intrecciate tra loro». «Santità, infatti, significa costruire la propria maturità umana come Dio la sogna, guardando il Figlio». «Nella santità la creatura col suo limite e la sua colpa non si dissolve in una sorta di aura sacrale ma si libera e si ricrea».
Ma sulle due parole della “speranza” e della “santità” si erge come vertice e stella polare proprio il terzo vocabolo decisivo, “Parola di Dio”, vocabolo tipico della Chiesa post-conciliare. Ma ecco che la domanda del monaco nella sua brutalità cade come una sferzata: «Cosa ne abbiamo fatto della Parola a mezzo secolo dalla “Dei Verbum”?». «Questo arco di tempo – che per la Bibbia è il segno di un’intera generazione – quanto è stato inquietato e trasformato dalla Parola?». «La Parola divina non la si deve conservare solo come una pietra preziosa da collocare in un reliquiario: essa è come un mare in cui ci si deve immergere, bagnare, avvolgere». «Uno diventa la Parola che ascolta. Uno si assimila alla Parola che medita quotidianamente e diventa narratore di speranza».
«Le nostre comunità sono state attraversate veramente da questa Parola?», chiede Mosconi. «Chi, come me e come tanti presbiteri e vescovi della Chiesa italiana, aveva al tempo del Concilio venti o trent’anni, che cosa scopre guardando al fluire degli ultimi decenni? Nelly Sachs, una poetessa ebrea tedesca, Nobel nel 1966, in una sua ballata sui profeti si domandava: «Se i profeti irrompessero per le nostre porte della notte incidendo ferite nei campi dell’abitudine, se i profeti irrompessero cercando un orecchio come patria, orecchio degli uomini ostruito di ortiche, sapresti ascoltare?». «Dobbiamo riconoscere e non sminuire quello che si è fatto di importante per la Bibbia, ma dobbiamo anche chiederci perché spesso la Parola divina non incide ferite nella placida superficialità dei nostri giorni e le ortiche delle cose secondarie o vane continuano a ottundere il nostro ascolto».