ROMA, venerdì, 21 settembre 2012 (ZENIT.org) – Pubblichiamo l’omelia di mons. Mariano Crociata, segretario generale della CEI, pronunciata oggi pomeriggio nella cappella centrale della sede romana dell’Università Cattolica del Sacro Cuore durante i funerali di mons. Sergio Lanza, assistente ecclesiastico generale dell’Ateneo.
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La morte ha colto mons. Sergio Lanza in corsa, nel fervore di una serie di impegni, di propositi, di progetti che lo hanno animato fino alle ultime ore. Una circostanza, questa, che carica la sua scomparsa di significati che ci vengono affidati e che chiedono di essere decifrati e possibilmente assunti.
Di fronte a una morte, soprattutto quando sopraggiunge nel pieno delle attività, la prima reazione è di sgomento, di disorientamento, di pena; sentimenti a cui spesso subentra un senso di rassegnazione, quasi fatalistica, che apre la strada alla ripresa del ritmo ordinario subito assorbito dalle urgenze di quella corsa che per un tratto ancora – chissà fino a quando… – continuerà senza interruzioni.
Il credente non si accontenta di questi automatismi emozionali e psicologici; percepisce altro e coltiva altra coscienza. Anche la morte di un uomo è una parola di Dio a cui le parole della Scrittura e della fede della Chiesa conferiscono eloquenza e accenti idonei a renderla almeno un po’ intellegibile. In questo momento in ognuno di noi sta risuonando un’eco di questa parola che domanda di essere accolta. Le risonanze a cui ora faccio spazio siano intonate al coro di pensieri e di emozioni che compongono l’armonia di questa celebrazione.
Mons. Lanza non è stato uomo da indulgere a sentimentalismi, e tuttavia nulla è più lontano da lui dell’immagine di persona insensibile o fredda. Dietro un atteggiamento schivo, discreto, distaccato, bruciava una passione di intelligenza e di speranza, che sapeva farsi attenzione anche premurosa verso persone e situazioni. Conoscitore fine di teologia e di cultura, sapeva leggere gli uomini; disincantato e inesorabile realista, gli era impossibile cedere al cinismo; diceva senza infingimenti la verità, ma condendola di rispetto, ironia e autoironia. Nello stile del vero credente, che guarda in faccia senza sconti ai problemi e alle difficoltà, si è impegnato ancora più tenacemente là dove sembrava non esserci via d’uscita.
È stato uomo di fede e di speranza. Per questo finiva col trasmettere serenità e anche un pizzico di buonumore. Dalle ultime cose dette ci viene consegnata la volontà di essere ricordato con la citazione dell’inno in cui esplode la gioia del popolo dell’esodo liberato dalla schiavitù: «Mia forza e mio canto è il Signore». Una lucida incondizionata fiducia in Dio lo ha guidato ed è stata l’anima del suo ministero sacerdotale, che ha esercitato nelle aule universitarie della Lateranense in cui ha impartito il suo sapido insegnamento, nel ruolo istituzionale e coinvolgente di assistente generale della Cattolica, nel rapporto vigile con docenti, studenti e dipendenti, di questi ultimi in particolare ancora di recente ascoltando e interpretando bisogni e richieste, ristabilendo solidarietà e collaborazione. Solo uno che tenga ferma dinanzi agli occhi la visione profetica annunciata da Isaia – «Alla fine dei giorni…» (25,6a.7-9) – può vivere e agire così. Nelle pesantezze della vita e nell’asprezza della prova si mostra la genuinità della fede.
E della prova mons. Lanza ha vissuto uno dei volti più duri da portare, la malattia, che lo ha condotto alla fine in questo policlinico, in cui la lezione più difficile da apprendere è quella di passare da elargitori di cura a bisognosi di cure, da consolatori a consolati. È un passaggio che egli ha compiuto senza darsene troppo pensiero, senza compiangersi o lamentarsi, ma tenacemente proteso verso l’obiettivo della sua presenza e del suo servizio.
Siamo stati tutti impressionati dalla determinazione con cui fino all’ultimo si è mostrato profondamente assorbito dall’intento interiore di portare a compimento la sua missione, anzi di «portare a compimento la parola di Dio», come si esprime il brano di Colossesi (1,25). Nelle parole dell’Apostolo comprendiamo ora il segreto di tanta dedizione: «Sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (1,24).
Servire il Signore e la Chiesa dovrebbe essere sempre motivo di letizia, nella certezza che con la grazia di Dio ogni fatica, anche la più piccola e nascosta, produce frutto. Impariamo anche noi – con i fatti prima che con le parole – a dire come san Paolo: «Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza» (1,29).
Il cuore della missione sacerdotale di mons. Lanza è stata la cultura che nasce dalla fede e la alimenta. Molto di più di un luogo di lavoro, l’università ha rappresentato per lui una dilatazione della Chiesa, uno spazio in cui fede e ragione – e perciò anche sapere, scienza, cultura – si arricchiscono e si fecondano reciprocamente.
La acuta consapevolezza che la fede ha bisogno dell’intelligenza e che una ragione non ridotta a mero strumento calcolante – come ripetutamente ha richiamato, anche in questa sede, il magistero di Benedetto XVI – è strutturalmente aperta alla domanda religiosa, ha visto non solo convivere ma coltivare insieme senso pastorale e rigore scientifico, apertura intellettuale e radicato amore alla Chiesa. E la ragione di simile visione in lui non aveva nulla di nemmeno vagamente ideologico, perché radicata nel rapporto personale con il Signore Gesù, in cui si condensa «il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi» (Col 1,26): «Cristo in voi, speranza della gloria» (1,27), secondo la luminosa espressione di san Paolo.
Per il credente non c’è nessun sapere, e ancor meno alcun sapere della fede, che non abbia la sua ultima consistenza nella relazione personale con Cristo Signore. È tale relazione di fede e di amore che unifica la persona, assorbe tutte le sue energie, motiva la dedizione esclusiva e totalizzante del “chicco di grano” (cf. Gv 12,24), che affida il proprio futuro e la propria fecondità al dono totale di sé, consegnato con Gesù alla morte per far risorgere la vita in modo nuovo, inatteso, non immaginato.
Intuiamo una misteriosa fecondità nella morte di mons. Lanza. C’è un segno sconcertante nel suo venire a mancare proprio in questo delicato momento. Molti come me avvertono il rammarico di non poter contare sulla sua presenza in questa fase della vita dell’università. Ma una luce può farsi strada attraverso l’oscurità di disegni che ci sfuggono. La sua visione di una comunità accademica protesa a tenere desta la coscienza della propria identità cattolica e a raccogliere le forze per percorrere uniti un nuovo tratto di strada è il compito che questo passaggio doloroso consegna a tutti e a ciascuno.
Non c’è più uno come lui a richiamare quest’orizzonte con la semplicità e la profondità del suo stile e della sua persona; sentire il dovere di coscienza di fare propria la missione dell’università dei cattolici italiani è l’unico modo di onorare la memoria e non disperdere il contributo che mons. Lanza ha dato alla riflessione teologica e alla comunità ecclesiale.