Una questione di identità e laicità tra diritto e morale (Prima parte)

Obiezione di coscienza 3 | Giurisprudenza e criticità

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di Antonio Palma*

ROMA, domenica, 16 settembre 2012 (ZENIT.org).- 1. In diverse occasioni ho avuto modo di approfondire il complesso tema della relazione di genere tra identità e laicità, concludendo per l’esistenza non di una laicità, bensì di diverse laicità, ovvia conseguenza del  politeismo dei valori, ricordando Weber.

Sono i «valori», difatti, a determinare il concetto di «laicità», che, oggi più che in passato, ben può essere considerata simbolo e manifestazione di tolleranza e libertà, nelle accezioni più varie, ed ove lo si ritenga, anche in contrapposizione ad «autorità»1. E ciò specialmente nell’ambito di un contesto sociale che voglia effettivamente essere multiculturale2.

Nell’ambito della Costituzione italiana, il principio della «laicità» – definito da più parti «super principio costituzionale», si ritiene, sia soltanto implicito, a differenza di altre democrazie occidentali3. La laicità, intesa come «super principio costituzionale implicito»4, pone, in primo luogo, difficoltà in ordine alla determinazione del suo «contenuto essenziale»5.

In questa direzione, un ruolo significativo è svolto dall’assenza, in Italia, di una legislazione  ad hoc  in materia di «obiezione di coscienza», alla quale tentano di supplire, però, note decisioni delle Corti, anche se spesso con risultati alquanto scarsi.

Così, nella proposta prospettiva ermeneutica, assumono specifico valore, le diverse decisioni in merito alla giustificazione dell’omissione di atti di ufficio da parte del pubblico funzionario, ad esempio in presenza di simboli sacri o religiosi6.

Dall’esame delle decisioni giurisprudenziali, alle quali si è fatto riferimento, sembra scaturire la distinzione dottrinale tra «laicità per addizione» (cioè ammissione ed esposizione di tutti i simboli) e «laicità per sottrazione» (ammissione di alcuni simboli ed esclusione di altri)7: «nel nostro ordinamento costituzionale quello della laicità dello Stato costituisce un principio supremo, idoneo – secondo la Corte costituzionale – a risolvere talune  questioni di legittimità costituzionale (…). Trattasi di un principio non proclamato  expressis verbis  dalla nostra Carta fondamentale; un principio che, ricco di  assonanze ideologiche e di una storia controversa, assume però rilevanza giuridica potendo evincersi dalle norme fondamentali del nostro ordinamento»8.

Una conclusione, però, può, forse, essere tratta, ossia, come si anticipava nelle pagine introduttive, la laicità è, innanzitutto, simbolo di tolleranza, e viene intesa, precisamente, come «dubbio rivolto pure alle proprie certezze, autoironia demistificazione di tutti gli idoli, anche dei propri; capacità di credere fortemente in alcuni valori, sapendo che ne esistono altri, pur rispettabili»9.

2. –  L’ «obiezione di coscienza» può essere, dunque, esaminata nell’ambito delle ricadute operative del concetto di laicità, e segnatamente come fattispecie concreta di applicazione del principio, in termini di «libertà». Così, in un quadro così complesso, potente si manifesta l’ipotesi di rimettere al singolo o alla singola collettività o istituzione di  autodeterminare  la propria laicità e identità, una sorta di applicazione  domestica  del principio di autodeterminazione e di sussidiarietà, verticale ed orizzontale.

Il tema, è evidente, è destinato ad assumere ben diverse proporzioni, meritando ben altro approfondimento, se non altro in termini di relazione tra «identità individuale», «identità nazionale» e «identità costituzionale»10.

Così, «identità» diventa anche simbolo di «integrazione», in una prospettiva di rimozione dei limiti formali e sostanziali all’unità, sia nell’ambito nazionale che in quello sovranazionale o, se si preferisce, europeo.

Il riconoscimento di «identità» costituisce, difatti, strumento di attribuzione di «libertà», in chiave marcatamente antidiscriminatoria11.

3. –  Le obiezioni di coscienza – non soltanto al servizio militare, che pure ne rappresenta il paradigma di riferimento –, hanno subito, in applicazione del principio di laicità, una significativa trasformazione12. La riflessione non può che partire dai fenomeni di obiezione che la comune esperienza giuridica, legislativa e giurisprudenziale, pongono come utile punto di riferimento per una ricostruzione esegetica in materia. Ebbene, si tratta, in primo luogo, dell’obiezione di coscienza al servizio militare13, poi, dell’obiezione agli interventi di interruzione della gravidanza14  e di quella alla sperimentazione su animali15. A queste ipotesi normative devono essere, inoltre, aggiunte, tra i numerosi ed astratti casi ipotizzabili, i seguenti: il diritto del lavoratore a «rifiutare per motivi di coscienza l’adempimento della prestazione alla quale è obbligato per contratto»16; vi è, poi, il noto caso dei Testimoni di Geova che rifiutano emotrasfusioni17; ancora, il caso dell’Avvocato divorzista o del Giudice «della famiglia», che crede nell’indissolubilità del sacro vincolo matrimoniale18; quello del farmacista  cattolico che è contrario alle pillole abortive; quello particolarmente complesso dell’obiezione alle vaccinazioni obbligatorie19; per finire con un’altra significativa ipotesi, quella della c.d. obiezione fiscale. Si tratta solo di ipotesi proposte a titolo esemplificativo, al fine di porre in debita evidenza come il fenomeno dell’obiezione di coscienza sia destinato, nell’ambito di dinamiche politiche e sociali in continua e radicale trasformazione, ad acquistare dimensioni del tutto nuove ed impreviste.

Così, il fenomeno delle obiezioni di coscienza, assume un primo rilevante valore sotto il profilo della qualificazione della situazione giuridica soggettiva sottesa all’esercizio del diritto o alla manifestazione dell’interesse. Ci si interroga, cioè, sotto il profilo della teoria generale, in ordine alla natura di detta situazione giuridica, se, cioè, di diritto soggettivo o di interesse legittimo, in particolare. Naturalmente, non mancano neppure diverse ed ulteriori proposte ricostruttive20.

In una simile direzione, utile appare il riferimento alla sperimentata ipotesi dell’obiezione di coscienza al servizio militare obbligatorio, discussa sotto il profilo della sua consistenza giuridica: secondo alcuni, si tratterebbe di interesse legittimo21, secondo altri, invece, argomentando dall’attribuzione dei diritti fondamentali, avrebbe, invece, consistenza di  diritto soggettivo22; secondo altri ancora, ed in maniera particolarmente significativa, la fattispecie in esame non potrebbe essere, invece, inquadrata in nessuna delle due categorie formali ora esposte, attesi i tanti chiaroscuri tra le due suddette categorie, a partire dal
la nota decisione n. 500 del 199923.

La concezione del diritto soggettivo pare aver finito con il prevalere, in seguito alle decisioni della Corte Costituzionale24, cui, in parte, si è fatto cenno. In particolare, la citata decisione n. 164 del 1985 ha definitivamente affermato la netta distinzione tra il dovere di «difesa della patria» ed «il servizio militare obbligatorio».

Meno problematica è, invece, la natura di diritto soggettivo potestativo «sostanziale» che connota l’obiezione all’interruzione di gravidanza, in quanto espressamente qualificata, in tal senso, dal legislatore, esercitatile attraverso una semplice dichiarazione25.

Ancora una volta, quindi, la laicità può essere giusto simbolo di libertà e tolleranza e, al contempo, fondamentale strumento di equilibrio tra le inevitabili tensioni dell’ideologia e della politica.

Con specifico riferimento all’argomento qui in indagine, delle obiezioni di coscienza, sembra, pertanto, potersi, osservare come nell’ambito di uno Stato Laico possa, allora, essere attribuito valore prevalente alla «libertà di coscienza», da considerarsi «valore giuridico fondamentale» di civiltà26.

Anche per ovvie ragioni di sintesi, non mi soffermo sulla problematica dell’esercizio del diritto di obiezione che ha assunto drammatica rilevanza nell’ambito del tema della fine della vita umana o, se si preferisce, nell’ambito dei «diritti di fine vita». La molteplicità dei profili di indagine non consente, difatti, neppure di effettuarvi un breve cenno27.

* Professore Ordinario 
Istituzioni di Diritto Romano,
Facoltà di Giurisprudenza,
Università di Napoli “Federico II”;
Avvocato;
Presidente Scienza & Vita Napoli

(Per consultare la newsletter di Scienza & Vita, si può cliccare sul seguente link:  http://www.scienzaevita.org/materiale/Newslettern59.pdf)

[La seconda parte verrà pubblicata domani, lunedì 17 settembre]

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NOTE

1  Cfr. A. PALMA,  Le laicità e le identità nella recente giurisprudenza italiana, in  Studia et Documenta, 2011, pp. 479 e ss.

2  La memoria conduce a VOLTAIRE,  Il trattato sulla tolleranza  del 1763, e ricorda il drammatico fatto di cronaca che ne ha ispirato l’origine: un padre calvinista uccide il figlio per impedirgli di convertirsi alla religione cattolica, inscenandone il suicidio, nella cattolica Tolosa del 1761.

3  Ci si riferisce all’Ordinamento francese, nell’ambito del quale, invece, questo principio sembra essersi affermato in maniera al quanto differente: nell’Ordine costituzionale francese, difatti, l’art. 1 Cost. esplicitamente afferma la laicità dello Stato.

4  Secondo la nota definizione di Corte cost. sent. 12.4.1989, n. 203 in  Foro it., 1989, I, c. 1333 e ss.: «non è fondata la questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli art. 2, 3, e 19 cost., dell’art. 9 n. 2 della legge n. 121 del 1985 (ratifica ed esecuzione dell’Accordo di modificazioni, con protocollo addizionale, firmato il 18 febbraio 1984, che apporta modifiche al Concordato Lateranense, tra l’Italia e la Santa Sede, dell’11 febbraio 1929), nonché del punto 5, lett. b), n. 2 del protocollo addizionale cit., sotto il profilo che le norme denunciate, qualora non potessero legittimare la previsione dell’insegnamento religioso come insegnamento meramente facoltativo, posto al di fuori dell’orario ordinario delle lezioni, dovrebbero essere considerate lesive del principio della libertà di fede religiosa, del principio di uguaglianza, e del diritto al libero sviluppo della personalità del minore nell’ambito della scuola». A tale conclusione si giunge in considerazione del fatto che «l’art. 9 punto 2 l. 25 marzo 1985 n. 121, che ratifica le modificazioni al concordato con la Santa Sede, e il punto 5 lett. b) n. 2 del protocollo addizionale prevedono che l’insegnamento della religione cattolica (che lo Stato è tenuto ad assicurare) è facoltativo per gli studenti e per le loro famiglie; pertanto, l’art. 9 punto 2 (“recte” numero 2) legge n. 121 e l’art. 5 (“recte”: punto 5) lett. b del protocollo addizionale cit. non sono in contrasto con gli art. 2, 3 e 19 cost. in quanto non impongono a coloro che non si avvalgono dell’insegnamento alternativo e, conseguentemente, non causano agli stessi un discriminazione ed un condizionamento della loro libertà di religione». E ciò «in quanto solo l’esercizio del diritto di avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica crea l’obbligo scolastico di frequentarlo nel mentre, per quanti decidano di non avvalersene, l’alternativa è uno stato di non obbligo». Ed inoltre, Corte cost., 14.1.1991, n. 13, in  Dir. famiglia, 1991, p. 865 e ss.:  «è infondata, con riferimento agli art. 2, 3, 19 e 97 cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9 n. 2 dell’accordo di modificazioni, del concordato lateranense 11 febbraio 1929, tra la Santa Sede e l’Italia (Villa Madama, 18 febbraio 1984), nonché del p. 5, lett. b), n. 2 del protocollo addizionale, in pari data, all’accordo predetto, norme entrambe immesse nell’ordinamento giuridico dello Stato in virtù della legge di ratifica 25 marzo 1985 n. 121, nella parte in cui consentono agli studenti non avvalentisi dell’insegnamento religioso cattolico di assentarsi o di allontanarsi dalla scuola per lo spazio di tempo nel quale detto insegnamento viene impartito». In considerazione del fatto che, «il collocamento dell’insegnamento della religione cattolica nell’ordinario orario delle lezioni non comporta violazione dell’art. 2 cost., poiché l’insegnamento della religione rientra nel quadro delle finalità della scuola e va impartito con modalità compatibili con le altre discipline scolastiche; pertanto, l’art. 9 n. 2 l. 25 marzo 1985 n. 121 ed il punto 5 lett. b) n. 2 del protocollo addizionale non sono in contrasto con gli art. 2, 19 e 97 cost.». Ne discende che, «la libertà di religione è garantita dalla scelta consentita agli studenti di avvalersi o di non avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica e le varie forme di impegno scolastico, presentate alla libera scelta dei non avvalentisi, non hanno alcun rapporto con la libertà di religione; pertanto, l’art. 9 n. 2 l. 25 marzo 1985 n. 121 ed il punto 5 lett. b) n. 2 del protocollo addizionale, non sono in contrasto con l’art. 3 cost. nella parte in cui, nel consentire agli studenti di avvalersi o non dell’insegnamento religioso, consentono ad essi di scegliere fra altre attività didattiche e formative, o attività di ricerca individuale con assistenza di personale scolastico, o libera attività di studio senza assistenza di personale docente, comprendente anche la facoltà di non presentarsi o allontanarsi dalla scuola». Queste significative decisioni hanno ritenuto doveroso affermare una regola di «equidistanza verso le fedi e le confessioni religiose organizzate».

5  Cfr. ancora Corte Cost., sent. n. 203 del 1989, cit. In dottrina, v. F. P. CASAVOLA,  Costituzione italiana e valori religiosi, in  Ripensare la laicità. Il problema della laicità nell’esperienza giuridica contemporanea, Torino, 1993, spec. p. 67 e ss.

6  Ci si riferisce alla decisone della Cass. pen., sez. IV, n. 439 del 2000, in  Riv. pen., 2001, 181 e ss., che, nel caso di impiego delle aule come seggio elettorale, ha ritenut
o, in nome della laicità, giustificato il rifiuto dell’ufficio di presidente o di scrutinatore – e, dunque, causa di esclusione del reato – in caso di presenza di simboli sacri o religiosi (il Pretore di Cuneo, in primo grado, aveva, invece, condannato per il reato di omissione atti d’ufficio i suindicati soggetti per il suddetto rifiuto). E, più, di recente, al caso noto come «Tosti», che ha ad oggetto la sopravvenuta rimozione, ad opera del Consiglio Superiore della Magistratura, di un magistrato per essersi rifiutato di tenere udienze in aule giudiziarie nelle quali era esposto il simbolo cristiano del Crocefisso. Per ulteriori approfondimenti, si ricordi l’articolo apparso sul  Corriere della sera  del 20.1.2010, in  www.corrieredellasera.it. Rimozione confermata dalle Sez. Un. della Corte di Cassazione, con la decisione del 14.3.2011, n. 5924, in  www.lexitalia.it, citata nel testo: «è legittima la sanzione disciplinare della rimozione irrogata dalla Sezione disciplinare del CSM nei confronti di un magistrato, ai sensi dell’art. 18 del R.D. n. 511 del 1946 e degli artt. 1, e art. 2, lett. n ed r. del d.lgs. n. 109 del 2006, perché in violazione dei doveri istituzionali e professionali di diligenza e laboriosità, con grave e reiterata inosservanza delle disposizioni relative alla prestazione del servizio giudiziario, si è sottratto all’attività giurisdizionale, che era chiamato a svolgere, astenendosi dalla trattazione di 15 udienze nonché di altre 4 udienze, per la presenza di un crocefisso nelle aule del Tribunale (nella specie tale condotta era persistita nonostante la messa a disposizione da parte del presidente del Tribunale di un’aula priva di simboli religiosi».

7  In argomento, cfr., tra i diversi autori, PRISCO,  op.  cit., p. 29 e ss.; Id.,  La laicità ed i suoi contesti storici: modelli socio-culturali e realtà istituzionali a confronto, in  Diritto e religioni, 1-2/2006, p. 301 ss.

8  Si tratta di Cass., sez. un., 14.3.2011, n. 5924, in  www.lexitalia.it. La Corte trae il principio di laicità, in particolare, dalle seguenti disposizioni costituzionali: artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione. La significativa decisione prosegue, «sul piano teorico il principio di laicità è compatibile sia con un modello di equiparazione verso l’alto (laicità per addizione) che consenta ad ogni soggetto di vedere rappresentati nei luoghi pubblici i simboli della propria religione, sia con un modello di equiparazione verso il basso (laicità per sottrazione). Tale scelta legislativa, però, presuppone che siano valutati un pluralità di profili, primi tra tutti la praticabilità concreta ed il bilanciamento tra l’esercizio della libertà religiosa da parte degli utenti di un luogo pubblico con l’analogo esercizio della libertà religiosa negativa da parte dell’ateo e del non credente, nonché il bilanciamento tra garanzia del pluralismo e possibili conflitti tra una pluralità di identità religiose tra loro incompatibili». La decisione è destinata ad assumere particolare valore, anche posta in relazione alla pressoché contestuale citata decisione della  Grand Chambre  della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 18.3.2011.

9  Così, v. C. MAGRIS,  Laicità, la grande fraintesa, in  La storia non è finita. Etica, politica, laicità, Garzanti, Milano, 2006, p. 26 ss.

10  In questa sede, ci si limita a segnalare una recente decisione del  Bundesverfassungsgericht  del 2.3.2010, indicata da S. RODOTA’,  Editoriale  della  Riv., crit. dir. priv., 2010, 1, 3 e ss. La decisone analizza la problematica questione della compatibilità con la legge interna tedesca della trasposizione della direttiva europea in materia di conservazione dei dati personali: «la decisione dei giudici tedeschi riguarda direttamente le caratteristiche di quella tutela, e fa giustizia di una distinzione alla quale ci si continua a riferire nella discussione costituzionalistica italiana, quella tra dati «esterni» e dati «interni» delle comunicazioni, si che soltanto questi ultimi sarebbero meritevoli della  garanzia prevista per la libertà e la sicurezza delle comunicazioni dall’articolo 15 della Costituzione». L’a. critica questa impostazione, siccome «arcaica», rilevando come, al contrario, la decisione tedesca rovesci «questa impostazione», mettendo «in evidenza come la semplice conservazione di dati esterni possa violare la libertà delle comunicazioni, perché l’accumulo di queste informazioni in grande banche dati (…), la conseguente possibilità di reperirle in ogni momento e di connetterle tra loro consentono di ricostruire l’intera rete delle relazioni personali, sociali, economiche di un soggetto, le sue preferenze e i suoi stili di vita, le stesse scelte politiche, religiose, culturali, anche senza conoscere il contenuto delle comunicazioni». Si è, dunque, di fronte alla necessità «di collocare il tema della privacy nella dimensione costituzionale, nell’ambito di un quadro di diritti che costituiscono addirittura l’identità costituzionale di un paese». In argomento, pare il caso di segnalare, altresì, un recente provvedimento normativo in materia di  Anagrafe nazionale degli studenti  (si tratta del Decreto ministeriale del 5.8.2010, n. 74, in  www.olir.it), della cui legittimità costituzionale è, forse, possibile dubitare. L’art. 3 del decreto, difatti, prevede quanto segue: «per le finalità di rilevante interesse pubblico di cui all’art. 95 del decreto legislativo n. 196/2003, l’Anagrafe può contenere dati idonei a rivelare lo stato di salute, le convinzioni religiose o di altro genere e dati giudiziari indispensabili ad individuare il soggetto presso il quale lo studente assolve l’obbligo scolastico (scuole paritarie, strutture ospedaliere, case circondariali, ecc.). I tipi di dati e le operazioni eseguibili ai sensi dell’articolo 20 del decreto legislativo n. 196/2003 e successive modifiche sono individuati, previo parere conforme del Garante per la protezione dei dati personali, in un atto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca avente natura regolamentare».

11  Il riferimento alla nota sentenza «Lisbona» della Corte costituzionale tedesca del 30.6.2009 appare alquanto evidente. In argomento, in senso parzialmente contrario alle numerose ed aspre critiche rivolte alla decisione, cfr. A. J. MENÉNDEZ,  Una difesa (moderata) della sentenza Lisbona della Corte costituzionale tedesca, Napoli-Roma, 2012, spec. pp. 10 ss.

12  Tra i diversi contributi in materia, cfr., in particolare, F. ONIDA,  Contributo ad un inquadramento giuridico del fenomeno delle obiezioni di coscienza, in  Dir. eccl., 1983, p. 241 e ss.;A. PUGIOTTO, voce  Obiezione di coscienza nel diritto costituzionale, in  Dig. (disc. pubbl.), X, Torino, 1995, p. 240 e ss.; S. PRISCO,  Fedeltà alla Repubblica e obiezione di coscienza – una riflessione sullo Stato «laico», Napoli, 1986, spec. p. 66 e ss.; e, più di recente, Id.,  Laicità. Un percorso di riflessione, cit., p. 71 e ss. Agli autori si rinvia anche per ogni opportuno approfondimento di natura bibliografica.

13  Risalente alla legge Pedrini n. 1033 del 1966, è stata successivamente modificata con le leggi n. 695 del 1974 e n. 1139 del 1977; e nuovamente riformata con la legge n. 772 del 1972 e n. 230 del 1998; per cadere in disuso con l’abolizione della leva obbligatoria e l’istituzione del Servizio Civile Nazionale ad opera della legge n. 64 del 2001. Com’è non a tale ultima conclusione si
è giunti attraverso alcune significative decisioni della Corte cost., che, in particolare con la sent. 19-31.7.1989, n. 470, in  G.U., I  serie speciale  del 9.8.1989, p. 74 e ss., ha provveduto a rimuovere le discriminazioni residue tra coloro che effettuavano il servizio militare obbligatorio e coloro che, invece, optavano per il servizio civile sostitutivo, argomentando ex artt. 2, 3 e 21 della Cost.

14  Regolamentata dalla legge n. 70 del 1994. In proposito, si segnala una recente decisione del T.a.r. Puglia Bari, sez. II, 14.9.2010, n. 3477, in  www.lexitalia.it, che ha dichiarato la illegittimità di un bando di concorso per il potenziamento organico della ASL, segnatamente in relazione all’ «assistenza del percorso di nascita», nella parte in cui escludeva dalla possibilità di parteciparvi medici ginecologi obiettori. Il bando, precisamente, consentiva la partecipazione solo a «specialisti non obiettori di coscienza per attività consultoriali». L’illegittimità di una simile clausola di esclusione, deriva dal contrasto della relativa scelta amministrativa con i principi di proporzionalità e ragionevolezza di derivazione comunitaria. Legittima, invece, viene considerata – per eventuali futuri bandi di concorso a tal riguardo – la scelta di prevedere una eguale riserva di posti (50 % per ciascuna «categoria») per medici obiettori e medici non obiettori. Anche una simile soluzione «percentuale», tuttavia, non manca di sollevare fondate perplessità.

15  Disciplinata dalla legge n. 413 del 1993.

16  Invero, in senso contrario, nel senso, cioè, dell’inesistenza di un simile diritto, tra i rari pronunciati, v. Trib. Milano 12.1.1983. Il caso è tratto da F. ONIDA,  L’obiezione di coscienza nelle prestazioni lavorative, inRapporti di lavoro e fattore religioso  a cura di Aa. Vv., Napoli, 1988, p. 227 e ss.

17  Il caso della manifestazione di volontà dei «testimoni di Geova» in ordine al rifiuto delle emotrasfusioni assume rilievo anche con riferimento alla problematica dei «diritti di fine vita». Ci si è, difatti, interrogati sulle conseguenze, in termini di responsabilità del medico che, nel caso di pericolo grave ed imminente per la vita del paziente testimone di Geova, effettui egualmente la trasfusione di sangue, con salvezza della vita di questi. In tal caso, per intenderci, vi sarà violazione del diritto di autodeterminazione e conseguente responsabilità aquiliana, oppure, in considerazione dell’effetto salvifico tale violazione non sarà ritenuta sussistente. Ancora una volta la «scriminante» sembra potere essere rappresentata dalla sussistenza o meno di un consenso informato consapevole, certo ed inequivoco circa il rifiuto del trattamento terapeutico. Il caso è stato, di recente deciso da Cass., 15.9.2008, n. 23676, Pres. Preden, Est. Travaglino, ed in senso favorevole al medico: «nell’ipotesi di pericolo grave ed immediato per la vita del paziente, il dissenso del medesimo deve essere oggetto di manifestazione espressa, inequivoca, attuale, informata. Esso deve, cioè, esprimere una volontà non astrattamente ipotetica ma concretamente accertata; un’intenzione non meramente programmatica ma affatto specifica; una cognizione dei fatti non soltanto “ideologica”, ma frutto di informazioni specifiche in ordine alla propria situazione sanitaria; un giudizio e non una “precomprensione”: in definitiva, un dissenso che segua e non preceda l’informazione avente ad oggetto la rappresentazione di un pericolo di vita imminente e non altrimenti evitabile, un dissenso che suoni attuale e non preventivo, un rifiuto ex post e non ex ante, in mancanza di qualsivoglia consapevolezza della gravità attuale delle proprie condizioni di salute. E ciò perché, a fronte di un sibillino sintagma “niente sangue” vergato su un cartellino, sul medico curante graverebbe in definitiva il compito (invero insostenibile) di ricostruire sul piano della causalità ipotetica la reale volontà del paziente secondo un giudizio prognostico ex ante, e di presumere induttivamente la reale “resistenza” delle sue convinzioni religiose a fronte dell’improvviso, repentino, non altrimenti evitabile insorgere di un reale pericolo di vita, scongiurabile soltanto con una trasfusione di sangue. Di talché, come la validità di un consenso preventivo ad un trattamento sanitario non appare in alcun modo legittimamente predicabile in assenza della doverosa, completa, analitica informazione sul trattamento stesso, così la efficacia di uno speculare dissenso ex ante, privo di qualsiasi informazione medico-terapeutica, deve ritenersi altrettanto impredicabile, sia in astratto che in concreto, qualora il paziente, in stato di incoscienza, non sia in condizioni di manifestarlo scientemente, e ciò perché altra è l’espressione di un generico dissenso ad un trattamento in condizioni di piena salute, altro è riaffermarlo puntualmente in una situazione di pericolo di vita». La vicenda si era mostrata incerta sin dal primo grado di giudizio. Il Tribunale, difatti, accolse la domanda risarcitoria; mentre la Corte di Appello di Trieste la respinse. Il caso dei «Testimoni di Geova» assume, inoltre, rilevanza in relazione alla discussa idoneità di un simile modello educativo, ed in particolare, nei momenti di crisi dell’unione solidale familiare. L’argomento è, di recente, ritornato nelle aule dei Tribunali: «in tema di separazione giudiziale dei coniugi, l’affido condiviso deve escludersi quando possa essere pregiudizievole per l’interesse dei figli minori». Nel caso esaminato, i Giudici avevano disposto «l’affido esclusivo del minore al genitore in grado di assicurargli un modello educativo predominante idoneo a garantirne un regolare processo di socializzazione, in quanto l’altro genitore per aver abbracciato una nuova religione, quella dei testimoni di Geova, si presentava destabilizzante per il minore stesso, prospettando un modello educativo tale da renderne impossibile una corretta socializzazione» (così, Trib. Prato, ord. 13.2.2009, in  www.olir.it; in senso conforme, C. App. Roma, 18.4.2007, in  www.olir.it).

18  Vi sono alcuni casi giurisprudenziali particolarmente significativi. Ad esempio, Trib. Avellino, ord. 4.2.2003, resa in un giudizio di separazione, nell’ambito del quale il Presidente, nonostante la intollerabilità della convivenza e la chiara manifestazione della volontà di separarsi, non autorizzava i coniugi a vivere separatamente. Se ne cita un breve brano: «in questa situazione la autorizzazione a vivere separatamente costituirebbe un immeritato premio per il marito, il quale deve, invece, meditare attentamente sulle proprie iniziative e capire una volta per tutte che non basta a tutti i costi volere una separazione per poterla ottenere, visto che vi sono dei giudici cui incombe il preciso dovere di riscontrare se oggettivamente, e non per una opzione tipo ripudio, la vita comune sia divenuta intollerabile» (la decisione è tratta da G. CASABURI,Sillabo dei principali errori sulla separazione giudiziale dei coniugi: ovvero giudici, etica di Stato, intollerabilità della convivenza, in  Il corr. del mer., 2005, 12, p. 1245 e ss.

19  Il caso delle vaccinazioni obbligatorie si dimostra emblematico, in considerazione dello stretto legame tra diritto e liberta individuale di obiezione e interessi collettivi. Difatti, «l’accresciuta consapevolezza dei rischi legati alla pratica vaccinale, la rilettura del rapporto tra diritto all’autodeterminazione e interesse collettivo e soprattutto l’orientamento della giurisprudenza minorile, volto a ravvisare un difetto di giurisdizione del tribunale per i
minorenni, conducono ad una impostazione più equilibrata della obbligatorietà delle vaccinazioni che nega l’equivalenza tra mancata ottemperanza all’obbligo vaccinale e pregiudizio per il minore per riconoscerla viceversa tra obblighi del cittadino e obblighi delle strutture sanitarie nelle quali si eseguono le vaccinazioni» (così, A. ALPINI,  «Vaccinazioni obbligatorie» e «obiezione di coscienza», in  Rass. dir. civ., 2011, 4, p. 1036 e ss., spec. p. 1049-1050). In giurisprudenza, v. Trib. min. Bologna, 25.1.1994, in  Fam. e dir., 1994, p. 1292, secondo cui «il compito di attuare l’obbligo vaccinale non compete al giudice, perché spetta all’autorità sanitaria esercitare la discrezionalità amministrativa e tecnica che le compete in ordine all’attuazione dei trattamenti sanitari obbligatori, rilasciando, eventualmente, esoneri dall’obbligo».

20  Per una disamina delle diverse ipotesi ricostruttive della situazione giuridica soggettiva sottesa, cfr., in particolare, ONIDA,  Contributo ad un inquadramento giuridico del fenomeno delle obiezioni di coscienza, cit., p. 241 e ss.;PUGIOTTO, voce  Obiezione di coscienza nel diritto costituzionale, cit., p. 240 e ss.; PRISCO,Laicità. Un percorso di riflessione, cit., p. 86 e ss.

21  In questa direzione, v. A. PUGIOTTO,Alcuni problemi di tutela giurisdizionale in tema di obiezione di coscienza al servizio militare, in  La tutela giurisdizionale  dei diritti fondamentali  a cura di L. Carlassare, Padova, 1988, spec. p. 134 e ss.

22  In questa diversa prospettiva, v. G. ANZANI,  La natura giuridica dell’obiezione ed i poteri della commissione ministeriale (sent. n. 16/1985 del Consiglio di Stato, Ad. plen.), in  Obiezione di coscienza al servizio militare – profili giuridici a prospettive legislative, Padova, 1989, p. 63 e ss.

23  Ci si riferisce a S. LARICCIA,  Coscienza e libertà, Bologna, 1989, p. 110 e ss. E’ noto ed acceso il dibattito nell’ambito delle categorie generali del diritto soggettivo e dell’interesse legittimi, ed nella direzione, sempre più intensamente sostenuta, del venir meno di una netta linea di demarcazione tra le due suddette categorie, a discapito della seconda.

24  Si tratta di Corte cost. sent. n. 409 del 1989, cit. Ma già con la precedente sent. n. 164 del 1985, in  Giur. cost., 1985, I, c. 2013 e ss., con commento di A. PUGIOTTO,  L’obiezione di coscienza al servizio militare tra l’immobilismo del legislatore e le accelerazioni della giurisprudenza, la Corte cost. aveva rimarcato la netta distinzione tra servizio militare obbligatorio e dovere di fedeltà. Si aggiunga, anche Corte Cost., sent. n. 113 del 1986, in  Giur. cost., 1986, I, c. 1822 e ss., con commento di A. PUGIOTTO,  L’obiezione di coscienza nuovamente davanti alla Corte costituzionale: ancora una sentenza lungimirante. Altre significative decisioni intervenute in materia e meritevoli di essere segnalate, nella prospettiva ermeneutica di cui nel testo, sono Cfr. Cons. di Stato., Ad plen., n. 16 del 1985, in  Giur. it., 1985, III, c. 1391 e ss., con commento di R. VENDITTI,Valutazione dei motivi dell’obiezione e reiezione della domanda di ammissione al servizio militare; e Pretura di Chivasso, ord. 15.3.1983, citata da PRISCO,  Laicità. Un percorso di riflessione, cit., p. 83 e ss.

25  Cfr. la legge n. 70 del 1994, art. 3. In argomento, cfr. G. DALLA TORRE,  Diritti dell’uomo e ordinamenti sanitari contemporanei: obiezione di coscienza o opzione di coscienza ?  in  Realtà e prospettive dell’obiezione di coscienza. I conflitti degli ordinamenti  a cura di B. Perrone, Milano, 1992, p. 291 e ss.In materia di diritti soggettivi perfetti, com’ è noto, si manifesta una ulteriore significativa distinzione nell’ambito specificamente dei diritti soggettivi potestativi, precisamente tra diritti soggettivi potestativi di natura giudiziale e quelli di natura sostanziale. Un caso appare di particolare interesse, ossia la natura del diritto alla separazione personale ed al divorzio dei coniugi. In proposito, si auspica un intervento legislativo che riformi la materia nel senso della diversa qualificazione del suddetto diritto da potestativo da esercitarsi necessariamente in giudizio a sostanziale. Nel senso, cioè, che, essendo condiviso che il presupposto per lo scioglimento del vincolo matrimoniale è solo il presupposto oggettivo dell’intollerabile convivenza e che l’altro coniuge non può opporsi alla separazione o al divorzio, risultando il suo dissenso irrilevante, tanto vale attribuire ai coniugi il potere di sciogliere il vincolo senza la necessità del giudizio (che potrà proseguire per le condizioni della separazione e del divorzio) ma attraverso una semplice dichiarazione unilaterale di volontà da rendersi innanzi ad un pubblico ufficiale atto a riceverla (si ritiene, il notaio). Per questa prospettiva evolutiva, cfr. A. PROTO PISANI,  La crisi coniugale tra contratto e giudice, in  Foro it., 2008, IV, c. 161 e ss.

26  Cfr. STRAND – STEIN,  I valori giuridici della civiltà occidentale, trad. it., Milano, 1981, spec. p. 71 e ss.; WIEACKER,  Sulle costanti della civiltà giuridica europea, in  Riv. trim. dir. pubbl., 1986, p. 8 e ss.; POLANYI,La libertà in una società complessa, Torino, 1987, 183 e ss.; VASSALLI,  Il diritto alla libertà morale, in  Studi giuridici in memoria di F. Vassalli, II, Torino, 1960, p. 163 e ss.; HABERMAS,  Storia e critica dell’opinione pubblica, trad. it., Bari, 1977, p. 1 e ss; BOBBIO,  Politica e cultura, Torino, 1974, rist., p. 1 e ss.; BARCELLONA,  Complessità e questione democratica, in  Democrazia e diritto, 1987, p. 15 e ss.

27  In argomento, rinvio ad alcune riflessioni svolte in  Le laicità e le identità nella recente giurisprudenza italiana, cit., pp. 479 e ss. A titolo esemplificativo, si considerino, difatti, le implicazioni che possono derivare dal rifiuto da parte dell’operatore sanitario di interrompere la prestazione di cura, dovendosi, poi, distinguere l’ eutanasia «attiva» da quella «passiva». In tale prospettiva, si manifesta anche la complessa questione del bilanciamento tra l’obbligatorietà del trattamento sanitario ed i diritti di autodeterminazione del paziente, ponendosi la controversa questione dell’ammissibilità o meno di un «diritto di morire» o di «eutanasia», che evoca il  Totenrecht  tardo ottocentesco tedesco, «nel segno dell’antimaterialismo filosofico e della ribellione al positivismo giuridico» (così, RESCIGNO,  La fine della vita umana, in  Riv. dir. civ., 1982, I, 634 ss., cui si rinvia anche per ogni opportuno approfondimento di natura bibliografica). Le applicazioni di un simile finale diritto sono note, si ricordino i tragici casi «Englaro», «Welby», «Terry Schiavo». In merito ai «diritti di fine vita», si ricordi anche quanto in precedenza indicato in riferimento alla manifestazione di volontà dei «testimoni di Geova» circa il rifiuto delle emotrasfusioni.

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ZENIT Staff

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