"L'uomo non vive di solo benessere"

Omelia del card. Antonelli nella Messa per il V Pellegrinaggio nazionale delle famiglie per la famiglia

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NAPOLI, domenica, 16 settembre 2012 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo dell’omelia tenuta dal cardinale Ennio Antonelli, già presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, nella Messa per il V Pellegrinaggio nazionale delle famiglie per la famiglia, celebrata a Napoli in Piazza Dante prima della serata dedicata alle Dieci Piazze.

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Grazia e pace e ogni bene a tutti voi e alle vostre famiglie dal Signore nostro Gesù Cristo!

Siamo qui riuniti per partecipare al bellissimo progetto “10 Piazze per 10 Comandamenti”. Sono incontri di festa, ed è giusto che sia così perché per i Comandamenti di Dio, per la legge di Dio, bisogna essere grati, bisogna far festa. È una legge di libertà, una legge di amore, una legge per la vita, per la vita umana autentica, per la vita buona, per la vita personale, per la vita sociale. È giusto far festa: dice la parola di Dio stessa nel Salmo 118 che i precetti del Signore fanno gioire i cuori. Certo, ci rattristano anche, quando non li osserviamo con piena responsabilità; e allora la coscienza ci rimprovera, ma di per sé sono per la vita, sono per la gioia, sono per la felicità, adesso e nell’eternità.

Oggi siamo qui per celebrare, per festeggiare il quarto Comandamento, “Onora il padre e la madre”, un Comandamento che riguarda la vita familiare. E questo nostro incontro inizia con la liturgia della 24ª domenica del Tempo ordinario. Le Letture, come messaggio principale ci presentano la dinamica, la logica, l’orientamento di fondo della vita di Gesù e della vera vita cristiana. È la logica dell’amore inteso come dono di sé, come dedizione a Dio e agli altri. Questa logica dell’amore e della carità conferma, assume i Comandamenti e li porta a perfezione, in un certo senso li trascende. Quindi è molto adatto questo messaggio per questo incontro che stiamo celebrando.

Abbiamo ascoltato dal Vangelo l’importante dialogo tra Gesù e i discepoli a Cesarea di Filippi. Questo dialogo si colloca nel momento centrale della vita pubblica di Gesù. Il momento della cosiddetta svolta di Galilea: fino ad allora il Signore Gesù si era dedicato soprattutto alle folle, alle masse. Da allora in poi si dedica soprattutto ai discepoli, ovviamente senza trascurare le folle. E’ una svolta piuttosto evidente nei racconti evangelici. Gesù aveva compiuto molte guarigioni, aveva mostrato la potenza di Dio, la misericordia di Dio. La gente lo aveva seguito in massa, con entusiasmo, piena di meraviglia per quello che lui compiva, piena di speranza per il futuro e si domandava: «Chi è mai costui? Chi è quest’uomo così potente, così buono?». E dava diverse interpretazioni, diverse risposte. Qualcuno diceva: «È Giovanni Battista che Erode ha fatto decapitare e che è risuscitato dai morti», qualcun altro diceva: «È Elia», il profeta che secondo l’Antico Testamento era stato tratto in Cielo sul carro di fuoco e secondo l’aspettativa della gente doveva ritornare nei tempi del Messia. Comunque dicevano: «È un profeta, è un grande profeta che è sorto tra di noi». Ma Gesù domandava ai discepoli: «Ma voi chi dite che io sia?», e Pietro a nome di tutti dice: «tu sei il Cristo, tu sei il Messia». Gesù accetta questa professione di fede di Pietro ma nello stesso tempo ordina severamente di non dirlo in giro alla gente, di non dirlo a nessuno: «Sì, sono il Messia ma non lo dite». Perché questo? Perché la gente e i discepoli stessi avevano una falsa immagine del Messia, si aspettavano un re trionfatore, un re che guidasse la rivolta del popolo contro i Romani, che liberasse il popolo dall’oppressione dell’Impero romano, che portasse la libertà e il benessere, che inaugurasse un regno potente, facesse di Gerusalemme il centro del mondo.

Quelle che la gente nutriva erano speranze terrene di gloria e di grandezza, Gesù invece è il Messia in un senso completamente diverso. Si rivolge ai discepoli e dice che il Figlio dell’Uomo deve essere rifiutato, respinto dalle autorità della nazione, deve essere perseguitato, oltraggiato, umiliato, suppliziato, ucciso, e poi risusciterà. I discepoli rimangono profondamente disorientati, sbalorditi: «Ma che sta dicendo?», e Pietro a nome di tutti lo tira in disparte e lo rimprovera: «Ma che dici? Non ti deve assolutamente succedere quello che stai dicendo». Pietro rimprovera Gesù, ma Gesù a sua volta rimprovera Pietro: «Va’ dietro di me, satana, non pretendere di andarmi davanti e di dirmi tu quello che bisogna fare. Vieni dietro a me. A te spetta seguirmi. Va’ dietro di me, o tentatore, perché tu non pensi secondo Dio ma secondo gli uomini, secondo gli interessi, la mentalità terrena degli uomini». E poi Gesù, non contento di questo, raduna la folla e dice: «Non pensate che seguirmi sia una passeggiata, una marcia trionfale. Se qualcuno vuol venire dietro me e vuol essere mio discepolo, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuol salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita a causa mia e del Vangelo, la salverà». È un discorso difficile per la gente, difficile per gli stessi discepoli, persino per Pietro.

È questa la “svolta di Galilea”: da allora in poi le folle cominciano ad abbandonarlo, non lo capiscono più, rimangono profondamente deluse. Gesù dichiara apertamente «Chi perderà la propria vita a causa mia e del Vangelo», la troverà. Chi dona la propria vita per amore, facendo della sua vita un dono, un dono al regno di Dio, a Dio e agli altri, chi imparerà a donare la sua vita, anche con sacrificio, questi la ritroverà; non perde in realtà la vita, ma la acquista, la rende autentica, piena, trova la felicità già adesso e poi nell’eternità. È questa l’esperienza che fanno tutti i veri cristiani: il centuplo già adesso e poi la vita eterna. Ma è un discorso difficile, contrario alla mentalità spontanea, all’interesse immediato, al piacere immediato, alla miopia delle nostre vedute umane e dell’opinione pubblica.

E quindi bisogna avere il coraggio di credere sul serio a Gesù, di prenderlo sul serio e di andare controcorrente. Gesù ci assicura che non è una speranza solo nel futuro come a dire: adesso soffri e dopo la morte, ritroverai la vita. No, anche subito si ritrova la vita e la gioia. Afferma un altro detto di Gesù: “c’è più gioia a dare che a ricevere”. Non c’è gioia solo nel conseguire la propria soddisfazione, gratificazione, interesse, bene immediato; ma c’è gioia anche a donare. Provare per credere! Lo sanno le mamme per esempio, in famiglia, quando con amore fanno dei grossi sacrifici, ma si sentono anche interiormente contente perché stanno facendo qualcosa di bello per i loro figli, lo stanno facendo per la loro famiglia. C’è più gioia a dare che a ricevere, già adesso: questo vale per tutta la vita cristiana, e in particolare per la vita di famiglia.

Benedetto XVI, nella sua prima Enciclica Deus caritas est, dice che l’amore coniugale vero è sintesi di eros e agape, è sintesi di amore e desiderio, di ricerca della propria soddisfazione – giusto e umano anche questo – armonizza con la dedizione e l’impegno per il bene dell’altro coniuge. Quindi l’amore-desiderio deve essere unito con l’amore-dono. E allora l’amore-desiderio non è più egoismo, ma viene nobilitato, diventa pieno, autentico amore. E questo è anzitutto amore reciproco tra i coniugi, l’uno per l’altro, e poi è amore comune dei genitori verso i figli, dedizione ai figli, con la procreazione, con la cura e con l’educazione. Questo comporta sacrificio, la croce: Gesù lo dice chiaramente, non ci inganna. Comporta tanti sacrifici, piccoli e grandi, nelle varie circostanze della vita, quasi ogni giorno, ma porta anche una gioia autentica nella misura in cui riusciamo a vivere coerentemente questa logica dell’amore che è sintesi di eros e agape.

A Milano, nel recente Incontro mondiale delle famiglie, è stata presenta
ta una ricerca sociologica “La famiglia, risorsa della società”. Sono stati confrontati diversi modelli, diverse forme di famiglia o para-famiglia – oggi c’è molta fantasia nella società e nella cultura – ed è risultato che le famiglie “normali”, quelle che poi sarebbero anche nelle aspirazioni della gran parte della gente, compresi i giovani, le famiglie normali cioè uomo e donna uniti in matrimonio, con due o più figli, sono le più felici, le meno lamentose, le più coraggiose nell’affrontare la vita, le più generose all’esterno.

Sono più felici e più stabili, perché tra l’altro i figli sono un rafforzamento del legame dei coniugi stessi; sono più pro-sociali, cioè più aperte, più attente, più disponibili, più impegnate anche verso la società, verso le altre famiglie, verso i problemi dei poveri, verso la società in generale. Sono famiglie anche mediamente più povere, perché non sono sostenute, anzi sono penalizzate, sia dallo Stato che dal mercato. Sono mediamente più povere, ma sono più felici. Cosa significa questo? L’uomo non vive di solo benessere, l’uomo non vive di beni materiali soltanto: vive soprattutto di relazioni buone, e quando c’è ricchezza di relazioni c’è anche gioia, gusto di vivere.

E allora ecco, le famiglie, che hanno due o più figli, hanno magari minore ricchezza di beni materiali, ma maggior ricchezza di relazioni. E quindi sono anche l’ambiente più adatto per la crescita umana di tutti i membri, dei figli innanzitutto ma anche degli adulti stessi, sono la scuola più vera, più autentica di umanità, e portano anche un maggiore benessere alla società. Viceversa, la povertà di relazioni crea infelicità e danni alle persone e alla società. Nello stesso libro in cui è stata pubblicata questa ricerca c’è anche uno studio dei dati sociologici di altre ricerche precedenti, come ricerca di sfondo. I figli, i giovani che crescono senza la figura paterna negli Stati Uniti sono il 90% dei senza casa, il 72% degli omicidi, l’85% dei carcerati, il 60% degli stupratori. Notate quanti danni alle persone e alla società vengono fuori quando la famiglia non c’è o non funziona? In Francia, l’80% dei ricoverati in psichiatria sono persone che sono cresciute in una famiglia incompleta o disgregata. In generale, , i giovani che crescono con un solo genitore, hanno doppia probabilità di diventare delinquenti rispetto agli altri che crescono in una famiglia normale.

Questo per quanto riguarda i figli. Ma anche per gli anziani non va bene. Gli anziani che non hanno voluto i figli vanno incontro alla solitudine. La mancanza di figli, la scarsità di figli genera solitudine per gli anziani e la solitudine è una grande povertà. Dice Madre Teresa di Calcutta, che di povertà se ne intendeva, che è più grave, fa soffrire di più la povertà della solitudine che non quella della miseria materiale. E lei diceva spesso che i Paesi del benessere, in realtà, sono più poveri dei Paesi sottosviluppati, più poveri di umanità e anche di gusto di vivere. Non ci vuole molto a rendersene conto. Se si va in un Paese dell’Africa, si vedono tanti bambini che sono festosi, gioiosi, non hanno niente eppure sembra che abbiano tutto. E poi la de-natalità, la mancanza di figli, prepara un futuro molto rischioso per gli anziani, mette a rischio l’economia, lo Stato sociale, le pensioni, l’assistenza: per un futuro non lontano la prospettiva è questa.

È chiaro che la famiglia normale, quella con due o più figli e una coppia stabile di coniugi, è un grande bene per tutti, per le persone e per la società. In fondo è quel tipo di famiglia che il Comandamento di Dio vuole sostenere: “Onora il padre e la madre”. L’amore deve essere nelle due direzioni: innanzitutto deve partire dai genitori verso i figli e poi dai figli deve ritornare verso i genitori.

Mi pare che queste statistiche presentate a Milano confermino che i Comandamenti di Dio sono per la vita, per la vita buona già adesso: non solo per il futuro, per l’eternità, ma già adesso, per la vita buona delle persone, per la vita buona della società. E quindi mi pare davvero giusto e bello che noi facciamo festa, che festeggiamo, celebriamo i Comandamenti di Dio e in particolare il quarto Comandamento nell’incontro di oggi.

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ZENIT Staff

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