Gareggiare con se stesso per vivere il senso della propria esistenza

Per Viktor E. Frankl, fondatore della logoterapia e analisi esistenziale, nello sport vale la regola del cercare di dare il meglio di se stessi

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di Eugenio Fizzotti

ROMA, mercoledì, 29 agosto 2012 (ZENIT.org).- Invitato a tenere una relazione sul tema «Sport: ascetismo del nostro tempo» durante il congresso scientifico patrocinato dalle Olimpiadi di Monaco del 1972, lo psichiatra austriaco Viktor E. Frankl propose le seguenti quattro tesi che, partendo dalla considerazione che l’uomo si caratterizza per l’orientamento verso qualcosa o qualcuno che è al di fuori di sé, egli applicò allo sport:

«1) Non solo l’uomo non è essenzialmente preoccupato di ridurre la sua tensione, ma anzi ha bisogno di tensioni. 2) Perciò egli è alla ricerca di tensioni. 3) Oggi, tuttavia, non riesce a trovare abbastanza tensione. 4) Questa è la ragione per la quale egli talvolta si crea delle tensioni».

Ed ecco come egli stesso commentò le quattro tesi.

«1) È ovvio che l’uomo non dovrebbe essere sottoposto a una tensione eccessiva. Ciò che a lui occorre, piuttosto, è una quantità moderata di tensione, una quantità giusta, una dose equilibrata. D’altra parte non soltanto le richieste eccessive, ma anche il contrario, la mancanza di incitamento, può determinare uno stato morboso. […] Personalmente […] affermerei che l’uomo ha bisogno di una tensione specifica, vale a dire di quel tipo di tensione che si forma tra l’essere umano, da un lato, e il significato, dall’altro, che egli deve realizzare. In realtà, se un individuo non è stimolato da qualche compito che deve assolvere, e perciò si risparmia la specifica tensione che da esso gli verrebbe, può insorgere allora un certo tipo di nevrosi.

2) È chiaro così che l’uomo non va soltanto alla ricerca di compiti il cui assolvimento possa conferire significato alla sua esistenza. L’uomo è fondamentalmente motivato da ciò che io chiamo la “volontà di significato”, come in anni recenti la ricerca empirica ha confermato.

3) Oggi, tuttavia, molte persone non riescono più a trovare questo significato e questo scopo della vita. In contrasto con i ritrovati di Sigmund Freud l’uomo non è più, in primo luogo, frustrato sessualmente, bensì “esistenzialmente frustrato”. E, in contrasto con le scoperte diAlfred Adler, il principale motivo del suo lamento non è più un senso di inferiorità, bensì un sentimento di futilità, un sentimento di mancanza di significato e di vacuità della vita: insomma, ciò che ho espresso con il termine “vuoto esistenziale”. Il suo sintomo principale è la noia. […] Dato che la società del benessere offre una tensione troppo bassa, l’uomo si mette a crearsi delle tensioni di sua iniziativa.

4) Egli, artificialmente, si crea quella tensione che gli era stata risparmiata dalla società del benessere! Egli si procura delle tensioni con il porsi deliberatamente delle domande su se stesso, con l’esporsi a situazioni di stress, sia pure per breve spazio di tempo. E come lo vedo io, lo sport, questa è precisamente la funzione che esso deve svolgere».

Secondo Frankl, allora, lo sport consente all’uomo dei nostri giorni ‑ che non ha più bisogno di camminare perché può andare in macchina, che non ha più bisogno di salire le scale perché può servirsi dell’ascensore ‑ di crearsi delle situazioni di emergenza: in esse, ciò che egli pretende da se stesso è di verificare i limiti delle proprie possibilità, in modo che, avvicinandosi ad essi, possa spingerli sempre più innanzi. Proprio come succede per l’orizzonte.

«In ogni competizione sportiva – è sempre Frankl a parlare – l’uomo in realtà gareggia con se stesso. Egli è il suo personale avversario.Almeno dovrebbe esserlo. Non si tratta di un imperativo morale, ma di una constatazione di fatto, perché quanto più uno lotta per gareggiare con altri e batterli, tanto meno è in grado di realizzare tutto il suo potenziale. Viceversa, quanto più egli concentra i suoi sforzi per dare il meglio di sé, senza preoccuparsi troppo di vincere e di trionfare sugli altri, tanto prima e tanto più facilmente i suoi sforzi saranno coronati dal successo. Ci sono cose che eludono una diretta intenzione; possono essere ottenute soltanto come effetti secondari di un altro scopo che uno si era proposto. Quando, invece, vengono elevate a scopo, questo fallisce».

Nello sport, allora, vale piuttosto la regola del cercare di dare il meglio di se stessi, anziché del voler vincere a tutti i costi. Ilona Gusenbauer, che fino alle Olimpiadi di Monaco del 1972 deteneva il primato mondiale di salto in alto, dichiarò in un’intervista: «Non devo dire a me stessa che battere gli altri è una cosa che devo assolutamente fare».

E lo stesso concetto espresse il signor Stastny alla squadra nazionale austriaca, di cui era allenatore, alla fine del primo tempo di una partita di calcio in cui perdevano due a zero con l’Ungheria. Egli disse loro che avevano ancora una possibilità, ma che non li avrebbe biasimati se avessero perduto la partita, a patto che realmente ognuno desse il meglio di se stesso. Il risultato fu meraviglioso: due a due.

«Il vero atleta gareggia soltanto contro se stesso», affermò un vecchio campione di paracadutismo, e soggiunse: «L’attuale campione mondiale assoluto di paracadutismo è Clay Schoelapple. Egli, nell’analizzare le cause per le quali gli Stati Uniti e non l’Unione Sovietica vinsero l’ultimo incontro, disse semplicemente che i russi erano andati per vincere. Clay, invece, compete soltanto con se stesso». E fu lui che vinse.

Il problema dello sport, dunque, dev’essere considerato in una prospettiva più ampia. Se, infatti, l’attività agonistica vede emergere ai nostri giorni con prepotenza non comune episodi di intolleranza, di violenza, di aggressività esasperata, lo si deve fondamentalmente a ciò che l’uomo pensa di se stesso e, conseguentemente, alla motivazione che lo guida nella pratica sportiva: diventare il primo della classe, essere sulle prime pagine dei giornali, sconfiggere l’avversario, ottenere quelle gratificazioni personali che non è possibile raggiungere negli altri settori della vita.

E veder scorrere fiumi di miliardi senza alcun accenno all’accettazione della superiorità dell’avversario, all’ammissione del fatto che si può anche perdere, alla ricerca della vittoria attraverso il sacrificio e la preparazione, rappresenta per i tifosi una potente carica aggressiva che si traduce, purtroppo, in gesti inconsulti, dettati da una mentalità che rifiuta anche la stessa ipotesi dell’insuccesso.

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ZENIT Staff

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