di Luca Marcolivio
RIMINI, venerdì, 24 agosto 2012 (ZENIT.org) – La sua testimonianza, resa ieri pomeriggio a Riminifiera, è stato probabilmente il momento più umanamente alto e toccante dell’intero Meeting. Al termine del suo discorso, Izzledin Abuelaish, 46 anni, medico palestinese, è stato salutato da una standing ovation di svariati minuti.
Il dottor Abuelaish ha perso la moglie e tre figlie nel giro di pochi mesi a cavallo tra il 2008 e il 2009, quando la sua famiglia era residente nella Striscia di Gaza.
“Il 16 è un numero che ha segnato in modo indelebile la mai vita”, ha raccontato Abuelaish. Il 16 settembre 2008, infatti, è rimasto vedovo, a seguito di una grave malattia della moglie, mentre pochi mesi dopo, il 16 gennaio 2009, un carro armato israeliano ha fatto irruzione nel campo profughi di Jabalia, distruggendo l’abitazione degli Abuelaish ed uccidendo tre figlie e una nipote di Izzledin.
Non solo il medico palestinese ha avuto la forza di perdonare i lutti subiti ma ha sentito il desiderio di raccontare al mondo la propria storia. Lo ha fatto pubblicando un libro autobiografico, intitolato Non odierò (Piemme, 2011) e istituendo la fondazione Daughters for life a sostegno delle giovani donne palestinesi desiderose di studiare ed emanciparsi: un omaggio alle sue defunte figlie.
Cresciuto in un campo profughi a Gaza, Izzledin ha ammesso di “non aver vissuto una vera infanzia”, eppure nella sua vita ha sempre pensato in positivo ed è stato il suo straordinario ottimismo che gli ha consentito di diventare il primo medico palestinese a lavorare in un ospedale israeliano. Oggi Abuelaish vive in Canada, dove insegna Global Health all’Università di Toronto.
Al pubblico del Meeting ha detto che “la sofferenza non è opera di Dio ma degli uomini” e che comunque “nessuno può impedirci di sognare, né di realizzare i nostri sogni”. “Nella vita quasi nulla è impossibile, l’unica cosa impossibile è far tornare in vita le mie figlie”, ha aggiunto commosso il medico palestinese.
“Quando vidi i corpi senza vita delle mie figlie – ha raccontato Abuelaish – ho pensato che nessuno avrebbe mai dovuto vedere uno spettacolo simile. Pensai che quella tragedia doveva essere veramente l’ultima… La vita è la cosa più preziosa e va sempre protetta. Salvando una vita salviamo il mondo; uccidendo una vita, uccidiamo il mondo”.
Izzledin Abuelaish, sin dalla sua gioventù, ha sempre creduto nella pace tra israeliani e palestinesi e nella pace in generale. “La gente – ha detto – si attendeva da me un sentimento di odio. Ma l’odio è un veleno, un’arma che distrugge le persone che ne sono portatrici. Non perdete tempo ad odiare. Arrabbiatevi, ma chiedetevi cosa potete fare per cambiare le cose”.
Un’altra delle figlie di Abuelaish, Shata, è sopravvissuta al raid israeliano dove sono morte le sorelle, perdendo un occhio e rimanendo quattro mesi ricoverata in ospedale. Nonostante il dramma in cui è stata coinvolta, la ragazza non ha interrotto i suoi studi e ha realizzato il suo sogno di diventare uno dei dieci studenti più brillanti della Palestina. “Poco prima di partire per il Canada, sono arrivati i risultati: 96/100. È il messaggio che mia figlia ha dato a chi invece preferisce l’odio”, ha raccontato il padre.
Abuelaish ha spiegato quanto siano state importanti le donne nella sua vita e nella sua famiglia e quanto sia fondamentale il ruolo femminile nella società: “Senza mia moglie e le mie figlie non sarei qui. In ogni società la figura più importante è quella femminile, perché le donne tengono accesa la speranza”.
“Credevo che mia figlia Shata mi conoscesse – ha aggiunto – eppure dopo aver letto il mio libro, mi ha detto: ‘papà, ora sì che so veramente chi sei…’. Conoscere significa manifestare rispetto, comprensione, amore. Quando ci si odia è perché non ci si conosce”.
Ginecologo e convinto pro-life, Abuelaish ha dichiarato: “Tutte le volte che, dopo il parto, consegno il neonato alla mamma è per me un momento felice. Il pianto del bimbo appena nato è un pianto di speranza”.
“Come esseri umani – ha dichiarato a Zenit il medico palestinese – siamo stati creati da Adamo ed Eva, da un uomo e una donna, non certo da due uomini o da due donne. Tutto questo perché uomo e donna sono complementari, hanno bisogno l’uno dell’altra e devono cooperare. Per quale motivo l’uomo dovrebbe sentirsi minacciato dalla donna?”.
Abuelaish è nondimeno convinto che il ruolo educativo della donna all’interno della famiglia debba essere esteso alla scuola e alla società. “La donna è sinonimo di vita e di speranza e le vanno date più opportunità”, ci dice.
A colloquio con la nostra agenzia, il medico palestinese aggiunge che la fede musulmana è stata fondamentale nel perdono agli assassini delle sue figlie, poiché “tutti i profeti, da Mosé a Gesù fino a Maometto, hanno sempre predicato e messo in pratica il perdono”.
In conclusione Izzledin Abuelaish ci confida di aver voluto raccontare la propria storia, in quanto essa rispecchia “la storia di tutti, la storia di ciò che accade nel mondo”. E in un “mondo dominato dalla violenza, dai conflitti e dalla pazzia”, Abuelaish ha voluto “dare speranza alla gente” e trasmettere il messaggio che “una tragedia come la mia non significa la fine del mondo” e che bisogna sempre “pensare in positivo”.
Ha scritto il suo libro e ha testimoniato a tutto il mondo che “non possiamo sprecare tempo incolpandoci gli uni gli altri” dei mali dell’umanità e, in tal senso ha voluto “raccogliere una sfida”. “La mia – ha aggiunto Abuelaish -non è una teoria ma un’esperienza concreta, vissuta sulla mia pelle e, testimoniando, io, che mi sento un uomo come tutti gli altri, credo di aver vinto la mia sfida”.
I frutti della testimonianza di Izzledin Abuelaish iniziano ad essere già maturi. Una compagnia teatrale formata sia da israeliani che da palestinesi, ha realizzato una riduzione teatrale del proprio libro, la cui prima mondiale andrà in scena in Israele in una data significativa: il prossimo 11 settembre.